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domenica 20 marzo 2016

Recensione: Il Piccolo Principe, di Antoine De Saint Exupéry

L'impatto del libro dipende sempre dal periodo di vita in cui lo leggi. Ho avuto anni e anni per conoscere questa storia... e mi ci sono avvicinata proprio nel momento in cui una mia amica non c'è più. Diventa molto difficile tenere alla larga il personale, quando una storia ci dice qualcosa di noi. Quando uno scritto tocca nervi scoperti e rende anche difficile esporsi e raccontarli agli altri.
Anche per questo amo Il Piccolo Principe... perché mi è veramente difficile narrare delle sue vicende come se non stessi alludendo a me e confesso che un'opera del genere mi si è marchiata dentro. 
La penna di Antoine ha il fascino irresistibile e infantile della semplicità. È tutto così piccolo eppure enormemente grande da perdere completamente l'orientamento. Parla dei piccoli, parla dei grandi, parla della nostalgia più terribile con frasi pulite e scarne, prive di festoni e inutili abbellimenti.
Ciascuna di esse è una punta di spillo fina e fastidiosa e ti spinge in maniera persistente verso una spietata e lucida analisi di coscienza. È mai possibile essere grandi conservando la propria magia?
Ma partiamo dalle fondamenta. 
Antoine racconta di essere atterrato nel deserto con l'aereoplano da aggiustare e di aver avuto il piacere di conoscere proprio lì in quel posto sperduto, un principino dai capelli biondi.
L'autore ci mostra i viaggi del Piccolo Principe, su pianeti  lontani dal suo, abitati da adulti disumani, interessati solo ai numeri e a quanto di più futile sia mai esistito sulla faccia della Terra. Gli adulti che sono tanto grandi, ma non sono capaci di misurare la vera grandezza.
Così come l'uomo d'affari che conta le stelle per possederle senza tuttavia occuparsene davvero, l'ubriaco che beve per la vergogna di bere, ci vengono snocciolate davanti agli occhi incertezze, ipocrisie e debolezze di una società che poggia le fondamenta sulle contraddizioni.
L'autore ci sconvolge aprendo la sua anima di bambino in maniera autentica e commentando i fatti con sfacciataggine implicita. Sempre come farebbe un piccolo. Proprio questo giocare un po' a fare l'adulto e un po' a fare l'infante, rende pungente il libro con tutti i suoi insegnamenti. Tutto sembra buttato così, per dire, in maniera casuale... ma non lo è affatto. Mai.

Questo asteroide è stato visto una sola volta al telescopio da un astronomo turco. Aveva fatto allora una grande dimostrazione della sua scoperta a un Congresso Internazionale d'Astronomia. Ma in costume com'era, nessuno lo aveva preso sul serio. I grandi sono fatti così. (...)
L'astronomo rifece la sua dimostrazione nel 1920, con un abito molto elegante. E questa volta tutto il mondo fu con lui.

Ci sono un miliardo di motivi per amare Il Piccolo Principe, ma io sono rimasta colpita e affondata per via della rosa. Sapete, Antoine fa amicizia con il ragazzino e lui viene da un asteroide lontano, dove curava un fiore molto speciale per lui. Ogni tanto, confidandosi con lo scrittore, narra delle loro conversazioni e presenta questo suo rapporto conflittuale ma autentico. Il principe ama questa rosa e la cita molto spesso anche negli esempi che fa riguardo al prendersi cura di qualcuno.
Si tratta di un fiore molto anomalo a livello caratteriale. Complesso, sfaccettato, orgoglioso al punto da fingere che con le sue poche spine sia davvero in grado di tener testa ai pericoli. Non è facile prendersi cura di un tale soggetto... eppure il nostro principe, dopo l'incontro con la volpe e con altre rose -che per lui finiscono per sfigurare in confronto, pur essendo identiche- giunge alla conclusione di amarla e di non poter stare così lontani, lei su un pianeta e lui sulla Terra.

Qualche volta il Piccolo Principe avrebbe voluto dimenticarla, ma in quel momento si rammentava di essere tutto per la rosa e se ne occupava di nuovo. Era a causa della sua bellezza che alla rosa tanto era dovuto e anche perché il Piccolo Principe ne era responsabile. Era questo che la rendeva così importante.

È difficile seguire, ascoltare gli aspetti più semplici dell'esistenza umana e non darli per scontati. Lo scrittore urla alle orecchie sorde e sussurra a quelle più innocenti dei bambini, che hanno la chiave. Loro capiscono davvero, infatti Antoine non si dilunga a perdere tempo con i grandi. Si percepisce uno scoraggiamento di fondo verso il mondo adulto, che forse ha perso la sua purezza...ma forse può anche recuperarla in qualche modo.
Rimpicciolendo?
Tornando a una semplicità primordiale, scarna e di poche parole come questo scrittore deluso dal genere umano?
Chi lo sa.
Probabilmente il rimedio migliore alla malattia dell'essere adulti, è ritrovarsi a mangiare marshmallow e bere latte al cioccolato. Così, per dimenticare il dolore, la solitudine, le delusioni, l'essere cresciuti troppo per arrivare alla felicità.
Vorrei potervi dire che questo libro vi fornisce la soluzione. Vorrei davvero affermare che riuscirà a restituirvi un pizzico di gioia, ma lo scopo principare è prendere il lettore, scuoterlo dalle fondamenta e indurlo a pensare.
Non perdete ciò che vi dà veramente goia. Non sprecate momenti preziosi, buttando tempo con cose da niente. Date il giusto valore agli affetti e alle situazioni, sempre... perché la vita non fornisce infinite possibilità per correggere il tiro.

«Dove sono gli uomini?» riprese dopo un po' il piccolo principe. «Si è un po' soli nel deserto...» «Si è soli anche con gli uomini», disse il serpente.
La poesia, la nostalgia e l'affetto che trasudano dalle pagine, sono intensi e inquantificabili. L'onestà della storia e i suoi dialoghi vi faranno sentire esposti, nudi. Non siete voi a leggere il libro, ma è il libro che vi legge e fa suonare corde in voi che avevate dimenticato di possedere. Vi riporta indietro malinconicamente a ciò che avete perso, ma v'insegna ad amare e proteggere con tutti voi stessi, ciò che dipende da voi.
Oguno ha la sua rosa di cui prendersi cura... sta a ciascuno far in modo che le pecore -poi capirete- e i pericoli le stiano lontane.

domenica 13 marzo 2016

Non vuol dire dimenticare, di Riccardo Schiroli


Sinossi

Siamo nel 1989 e, con un volo Linate-Zagabria, inizia un viaggio negli Stati Uniti. Per il protagonista, che è l’io narrante di un romanzo scritto in prima persona, si tratta di un momento epocale. Va in un paese che ha conosciuto prevalentemente attraverso i  libri e  il cinema e lo fa per inseguire un sogno d’amore nel quale non è certo di credere. Va solo: il suo mondo si è dissolto e cerca di costruirsene uno nuovo. E’ in compagnia delle sue canzoni, che lo aiutano a convivere con gli stati d’animo. Ma a poco a poco, finirà con il dover mettere i piedi per terra.
Il sogno d’amore non si rivelerà qualcosa in cui credere, ma nella California del sud e a New York City, inizierà la dolorosa transizione verso una fase nuova della vita.
Perché penso che sia da pubblicare? Sono convinto di essere riuscito a ottenere un linguaggio che rappresenta moltissimo le persone come me: che vengono da una educazione cattolica un po’ invasiva, che sono cresciute abbastanza privilegiate, che non hanno mai fatto troppa fatica a scuola. Anche perché il protagonista si è lasciato alle spalle i privilegi e si trova a farsi largo da solo e un po’ disorientato.
Credo anche che il romanzo rappresenti bene l’impatto che gli Stati Uniti potevano avere su un europeo del 1989. Descrivendo un mondo nel quale ancora non c’è internet e il protagonista può stupirsi delle centinaia di canali via cavo che vede grazie al televisore del Motel, penso sia anche interessante notare come non sia poi vero che i ventenni degli anni ’80 erano così diversi da quelli del terzo millenio.




Lasciamo la parola all’autore:

Perché un lettore dovrebbe leggere il tuo libro? 
Soprattutto perché è una lettura piacevole. Sono convinto di essere riuscito a ottenere un linguaggio che rappresenta moltissimo le persone come me: che vengono da una educazione cattolica un po’ invasiva, che sono cresciute abbastanza privilegiate, che non hanno mai fatto troppa fatica a scuola. Anche perché il protagonista si è lasciato alle spalle i privilegi e si trova a farsi largo da solo e un po’ disorientato.
Credo anche che il romanzo rappresenti bene l’impatto che gli Stati Uniti potevano avere su un europeo del 1989. Descrivendo un mondo nel quale ancora non c’è internet e il protagonista può stupirsi delle centinaia di canali via cavo che vede grazie al televisore del Motel, penso sia anche interessante notare come non sia poi vero che i ventenni degli anni ’80 erano così diversi da quelli del terzo millenio




Che cosa c’è di innovativo e quali sono gli elementi di continuità con il genere o con la tradizione?
  
Innovare non è il mio scopo. Anzi, a me piace scrivere qualcosa che tutti possano leggere e che scorra agile. Diciamo che io sono sempre stato attirato dal viaggiare. E’ qualcosa al quale i miei genitori mi hanno abituato da bambino e che ho fatto e continuerò a fare fin quando potrò. Dei miei viaggi ho sempre tenuto diari. Quindi in qualche modo posso essere influenzato dalla letteratura di viaggio. 



Che cosa ti ha spinto a scrivere?
Io scrivo da sempre. Mi è sempre piaciuto raccontare storie. Per me, raccontare significa spesso prendere la realtà e fare gli aggiustamenti che mi servono per farne un racconto che possa interessare. 


Da che cosa è nata la storia? Quali sono state le fonti di ispirazione?
Come ho detto, io tengo sempre un diario dei miei viaggi. Nel caso specifico del mio primo viaggio negli Stati Uniti mi sono reso conto che la cronologia degli eventi offriva una bella impalcatura. Sono partito per ricopiare i miei appunti in bella, ma ci ho preso gusto e sono passato a fare gli aggiustamenti che secondo me rendevano il racconto più interessante per un lettore qualsiasi. Poi mi sono reso conto che non è che mi fosse poi successo tanto e ho iniziato a inventare qualcosa. Quindi ho pensato di dover contestualizzare un po’ di più, per valorizzare l’ambientazione, e ci ho rimesso le mani.




Quando scrivi? E come? in modo organizzato e continuo o improvviso, discontinuo?
Quando mi metto a scrivere ho un piano ben preciso e la prima stesura non mi porta via molto tempo. Prendo moltissimi appunti (prevalentemente a mano, su vecchie agende…il fatto che le banche non regalino più le agende quotidiane, è stato un colpo duro ai miei budget, perché mi sono messo a comprare i quaderni Moleskine…) ed è da lì che parto. Poi c’è il lavoro di ricerca, che oggi è abbastanza divertente grazie a Google e Wikipedia, ma rischia anche di essere abbastanza dispersivo. Poi butto giù la struttura a biro e quindi inizio a scrivere al computer. L’unica fonte di frustrazione dello scrivere deriva dal fatto che non sei mai contento della prima stesura. E dopo tutta la fatica che hai fatto, ti piacerebbe tanto…



Quali strategie hai adottato per promuovere il tuo libro e che tipo di strumenti hai usato – e usi- per proporlo all'attenzione dei tuoi potenziali lettori?
E’ stato un brusco risveglio. Ero convinto di ottenere una visibilità maggiore con il mio blog e i post sui social media attraverso i miei profili. Il risveglio è stato brusco quando ho capito che chi mi segue abitualmente si aspetta di vedermi cimentare con lo sport e il baseball in particolare, visto che è quello che faccio professionalmente e mi dà visibilità. Umilmente, ho chiesto aiuto per ampliare i miei orizzonti.


Credi al self publishing?
Il mio blog è, di fatto, self publishing. Questo mi consente di occuparmi di argomenti che mi stanno a cuore senza intermediazioni e anche di pubblicare qualche racconto che mi esce estemporaneo. Ma per il romanzo ho cercato un editore. Sono convinto infatti che il primo giudizio di valore su un lavoro arrivi dall’approvazione di chi pubblica professionalmente. Certo, per il momento “Non vuol dire dimenticare” è solo un e-book. Ho ricevuto diverse proposte per pubblicare partecipando alle spese, ma è una formula alla quale non credo. Devo essere rimasto traumatizzato leggendo “Il pendolo di Foucalt” di Umberto Eco…


Progetti per il futuro?

Sono pronto a iniziare a scrivere il mio secondo romanzo, che ha il titolo provvisorio “La variabile C”. E poi accarezzo un sogno da tempo, quello di raccontare la mia passione per gli animali: da dove nasce e come si è concretizzata nelle mie osservazioni in natura. Anche qui ho un titolo provvisorio: “Le mie bestie”. Ma mi dicono che editori interessati si farebbe fatica a trovarne…per ora, quindi, mi sono limitato a pubblicare stralci e bozze sul mio blog.

Tre persone da ringraziare
Stelio Rizzo, storico direttore del giornale di fumetti Lanciostory, è stato il primo a incoraggiarmi a scrivere fiction. Ricordo come se fosse oggi la sua telefonata a casa dopo che avevo mandato spunti per soggetti alla redazione. Aveva un tono burbero, ma paterno. Mi disse: “Voi che avete il dono di scrivere, prima vi rendete conto che farlo per hobby non è come farlo per mestiere e meglio è”. Poi ci sono i miei genitori Arnaldo e Mirella: mi hanno sempre incoraggiato a leggere. Difficile diventare scrittore (o, come dice Paolo Nori, “uno che scrive dei libri”, che è più appropriato…), se non sei stato un lettore




Estratti:

1-PREMESSA

Mi sono imbarcato a Zagabria per gli Stati Uniti. 
Il mio viaggio è iniziato il sette di agosto, una giornata plumbea come si pensa che una giornata di agosto non sarà mai.
Diverso è stato il giorno precedente, luminoso e bellissimo.
Il giorno prima di partire sono sceso in piazza e mi sono voltato a guardare quel che resta della popolazione di bionde ossigenate della mia città. Il sei di agosto sono quasi tutte in vacanza, però qualcuna ancora c’è ed è sempre un bel vedere.
Il giorno prima di partire ho incontrato la Loredana. Alta, slanciata e bionda, la Loredana è la dimostrazione che una definizione imprecisa e generica è quasi sempre un peccato mortale; lo è, perché una ragazza alta, slanciata e bionda deve essere per forza una specie di miracolo, cosa che lei non è per niente. E’ simpatica però e ha appena compiuto diciotto anni, che sono un po’ meno dei miei ma nemmeno troppo pochi. Considerate le attuali condizioni della mia vita sentimentale, potrei farci un pensierino alla Loredana.
Mi ha fermato dove la piazza si apre in una strada pedonale. Io che guidavo uno splendido Bravo, lei con i libri di scuola il sei di agosto: roba da matti
La Loredana gioca a softball, uno sport che in sostanza non esiste. La Gazzetta dello Sport pubblica i risultati il martedì e quasi tutte le partite si giocano al sabato.
Il softball è uno sport che non esiste, ma è il motivo per cui io, il sette di agosto a  Zagabria, mi sono imbarcato per gli Stati Uniti. Questo sport che in Italia praticamente non esiste, in America è famoso e ben praticato, soprattutto dalle donne.
Io l’anno scorso ho conosciuto una giocatrice di softball che in Italia è venuta a passare quattro mesi, prendere un po’ di soldi e a conoscere me. Un minuto dopo che l’avevo conosciuta già mi parlava di andarla a trovare negli Stati Uniti e in fondo un viaggio negli Stati Uniti valeva la pena di farlo, indipendentemente da lei.
Il sei di agosto uesto sport che in Italia non esiste io ho comprato due guide degli Stati Uniti alla libreria Feltrinelli, perché io in America non ci sono andato solo per rivedere una ragazza. Possiamo anche citare testimoni, tutti sanno che il viaggio in America è stato da sempre un mio sogno. Poi gli Stati Uniti sono il centro del mondo, andare là e passare molto tempo in compagnia dei nativi mi permette di esercitare il mio Inglese e questo è importante per il mio futuro. Cosa sarà per me il futuro è una domanda che non mi sono posto, per ora.
In piedi all’imboccatura della strada pedonale la Loredana però non mi ha chiesto un ricordo, una cartolina, un’impressione. Mi ha detto: - Salutami la Valerie, se la vedi -








4- LA MORTE

Il pilota ci ha detto che entro una mezz’ora vedremo sotto di noi la città di New York.
Ho mangiato per la quarta volta e onestamente mi è stato difficile attribuire un significato all’ultimo pasto. Mi sono voltato verso Pellucidar, che però si è addormentato da tempo. Ho fatto un giro per l’aereo e ho appurato che la classe economica sembra un mercato del bestiame, mentre noi abbiamo fatto un viaggio da re.
Ho iniziato a fare i conti su quanto questo viaggio mi verrà a costare e mi sono spaventato per un attimo. In realtà non si potrebbe dire che si tratta di soldi miei, ma dell’ultimo aiuto datomi da mio padre. Il mio capitale di partenza era scarso, ma se non avessi incassato alla sua morte una parte dei soldi che aveva versato per garantirsi una vecchiaia tranquilla, lo sarebbe stato ancora di più.
Il 25 febbraio dell’anno scorso non era neanche male come giornata. Da studente asino ma non troppo mi ero svegliato moderatamente tardi. Non avevo studiato. Mollemente avevo percorso i 100 metri in linea d’aria che separavano casa mia da quello che pochi giorni dopo sarebbe diventato il mio posto di lavoro. Avevo quell’intontimento classico che viene al risveglio da un sonno poco soddisfacente. Una parte della mia vita stava finendo e io perdevo tempo dando occhiate distratte ai negozi.
- Neanche oggi il papà è andato a lavorare- Lo aveva detto mia sorella prima che uscissi e non me ne era fregato troppo. Ero tornato a casa alle due del pomeriggio e mi ero sentito raffreddato. Mi ero steso sul letto con in mano nientemeno che ‘L’età della ragione’ di Sartre, un libro che stavo tentando inutilmente di finire da quasi un mese. 
Rivivo la scena:  suona il telefono, sono le cinque, minuto più minuto meno. Con i pantaloni a mezza gamba mi alzo e rispondo: - Pronto, Riccardo. Sono Adriano. Il papà è qui, è caduto. Penso che sia già morto-
Resto calmo. E’ febbraio ma c’è caldo, tanto che mi infilo il cappotto senza abbottonarlo; mi butto in strada e mi viene da cantare “sì, la vita è tutta un quiz”. Rivedo mio padre in terra, ormai bianco, come una bambola rotta. Provo a rianimarlo ma ha una ferita alla pancia che è terribile. Grido, e mi sembra di entrare in un album delle foto.
E’ arrivato il medico legale, quel giorno e sono arrivati i poliziotti. Il mio medico di famiglia ha detto solo “che brut lavor”. Si è fatto buio, all’improvviso e quando sono arrivato c’era il sole. Cosa vuol dire? Un cazzo, solo che è arrivato il tramonto.
E’ stato l’ultimo giorno di vita di mio padre. 
L’ho raccontato alla Valerie un giorno di Settembre ed è stata lei la prima persona con cui ho rivissuto quei momenti.
-Oh, Dio- ha detto lei e i suoi occhi neri hanno iniziato a luccicare. Anche la Valerie ha perso una persona cara, me lo ha detto quella sera. Avevamo iniziato a parlare partendo dal testo di una canzone di Samantha Fox. La Valerie me lo ha dato chiedendomi se sapevo tradurre in Italiano l’espressione “party girl” e io le ho detto che sì, certo che la sapevo tradurre, anche se ho capito subito che dire “ragazza da festini” non aveva lo stesso fascino.
-Ma tu sei una ragazza da feste?- C’è mancato un attimo che lo chiedessi. Poi mi sono trattenuto, così come mi sono trattenuto dal fare commenti sugli inverosimili seni di Samantha Fox. Così, forse per dissimulare, ho letto il testo della Samanta e ho scoperto che non era poi del tutto idiota: “Ho sempre preso il sesso come un gioco, ma con te lo voglio fare per amore”.
Ho guardato la Valerie, che mi stava osservando. Ho pensato che però noi bravi ragazzi in fondo se fossimo un po’ peggio di così sarebbe anche meglio e facendolo mi sono rattristato.
-Ricky, perché sei così. Sembri felice, poi di colpo non sorridi più-
Alla luce del fatto che Paul Weller nella sua canzone ‘The Paris match’ scriveva “a volte mi piace essere triste così, in maniera naturale” mi sono considerato soddisfatto.
Comunque ho continuato: -Sai, è da quando mi è venuto a mancare mio padre…- 
La Valerie mi si è avvicinata e abbracciarla mi è sembrato naturale. Però non l’ho fatto, le ho solo appoggiato una mano sulla spalle. 
Non ho detto più nulla, ma questa volta è stata lei a parlare: -Il mio fratellastro è morto ad appena trent’anni. E’ stato terribile. Lo sai cosa significa vedere morire chi ami in un letto d’ospedale? Non puoi fare nulla, mentre si spegne a poco a poco. E’ terribile-
Io lo sapevo, ma non l’ho detto. E ho aspettato di essere solo, per piangere un po’.
Il DC10 della Jat si è attaccato al braccio che ci collega alla stazione dell’aeroporto più grande del mondo. Pellucidar ha preso il suo bagaglio a mano proprio nel momento preciso in cui la voce dall’altoparlante diceva di non muoversi fino a che il segnale luminose delle cinture di sicurezza non si fosse spento. Io sono rimasto seduto accanto ad un tizio che si è qualificato come un Americano di origine jugoslava. Mi ha preso il foglietto che dovevo compilare per l’Ufficio Immigrazione e mi ha consigliato di mettere un indirizzo preciso dove mi si chiedeva la mia residenza negli Stati Uniti. Ne ho parlato con Pellucidar e lui ha insistito per mettere una via di una città del New Jersey dove viveva un allenatore di non so quale sport che aveva conosciuto in vacanza a Castiglione della Pescaia. Non ha nemmeno dovuto insistere molto per convincermi.















15-INCONTRO RAVVICINATO (solo una parte)

A un quarto del libro ho pensato che Khomeini non mi è tanto simpatico, ma che posso quasi capire perché ha condannato a morte Rushdie. Il romanzo è iniziato bene, Gibreel e Saladin come personaggi mi sono piaciuti. Soprattutto Saladin, quando la moglie gli dice che si è innamorata di lui perché è bello rotondo e lui le risponde che le ossa comunque ce le ha. Ma non ho mica ben inteso: questi 2 salgono su un aereo, che viene preso in ostaggio dai terroristi. Poi sembra che saltino per aria, ma succede che vengono fuori degli altri. Cioè, c’è sempre Gibreel, ma non è più lui. Dice che vorrebbe uccidere sua mamma, che gli ha dato il soprannome di angelo. Sono a Jahilia, che non so dov’è. No, so dov’è, perché Salman lo scrive: in mezzo al deserto. Ma non conosco una città che si chiama Jahilia ed è nel deserto. Non ne conosco neanche che non sono nel deserto, di città che si chiamano Jahilia. Comunque, Jahilia è l’ombelico del mondo e il padrone di Jahilia è Abu Simbel. E’ arrabbiatissimo perché sua moglie gli fa le corna con un poeta. D’altra parte, tira più un battere di ciglia di donna che 10 buoi insieme. E’ un concetto che mette d’accordo tutti, anche se per esprimerlo non è che tutti usino queste note leggere.
Mahound, l’uomo d’affari, dice che a fare il postino di Dio non si diverte. Forse perché c’è un Dio solo e questo non gli piace molto: meglio gli specialisti, di quelli che si occupano di tutto. Me lo insegnano anche a Economia e Commercio. Ma poi Mahound si pente, dice che ha capito male perché gli han detto delle cose all’orecchio sbagliato. E quando sono tornati Saladin e Gibreel, quelli che c’erano all’inizio, ho concluso che non ci sto capendo niente. Non capisco neanche bene perché lo hanno condannato a morte, Rushdie. Sarà per quella storia che i musulmani prendono in ostaggio l’aereo e lo fan saltare. Oltretutto, la più cattiva è la donna. Io non ci credo, che i musulmani prenderebbero in ostaggio un aereo per farlo saltare. E comunque questo libro non mi piace. 
Ho deciso di comprarne un altro, di libri. A una bancarella ho visto un bel volume massiccio e in edizione economica: Nemesis di Isaac Asimov. Anche a Saladin piace Asimov.  All’inizio del libro di Salman legge Fondazione. Chissà se è il primo del ciclo, che intende. 
Comunque, Saladin mi è simpatico, Asimov mi piace e allora ho deciso di comprare Nemesis.
Ho letto subito la trama nel risvolto di copertina. Mi ha entusiasmato e sono passato alle prime righe della prima pagina, dove Asimov scrive che la storia si svolge in parte al presente e in parte al passato. Comunque questo libro non appartiene alla serie della Fondazione e neanche a quella dei robot. 
E’ forte anche lui, Isaac. Ha scritto 3 libri del ciclo della Fondazione, poi ha aspettato trent’anni e ne ha scritti altri tre. Che poi, i primi 2 non sono proprio romanzi e nel secondo ho beccato chi era il Mulo tipo a pagina dieci. Anche se il mio amico Boldo quando glielo dico mi guarda con quell’occhio acquoso che ha quando non ci crede, a quello che dico.
Nemesis mi ha definitivamente restituito il buon umore. Sono entrato nella gigantesca spiaggia di Huntington Beach e mi sono andato a sdraiare in una zona dove c'era parecchio spazio libero. Ho iniziato a divorare le pagine di Isaac e non sapevo se compiacermi di più per la storia ingegnosa o per la mia capacità di capire il testo in Inglese con grande facilità.
Janus Pitt: lui si che mi piace. Ovvio, non come Hari Saldon. Scondo me, Hari avrebbe previsto che non sarebbe stato possibile tenere nascosto che c’era una stella in collisione con la terra. 
Isaac però gli ha fatto un bello scherzo a Janus Pitt, a far nascere la figlia dell’astronoma con quel potere.

Le ore sono passate senza che me ne accorgessi. Un ragazzo mi ha chiesto l'ora e gliel’ho detta e ho appurato che erano le tre. Mi sono alzato e ho stirato il mio corpaccio ne per qualche secondo molto lungo. Tolti gli occhiali, ci vedevo poco. Ho percorso i metri che mi separavano dalla spiaggia e sono entrato in acqua. Era marroncina, l'acqua del mare della California, e mi ricordava abbastanza da vicino le spiagge della Versilia nei giorni peggiori. Una cosa che non ricordava la Versilia era l'acqua gelida; sono entrato con grande circospezione in acqua, alzandomi in punta di piedi per evitare di bagnarmi in maniera traumatica. La precauzione è stata inutile, perché un'onda alta quanto me mi ha buttato a terra, trascinandomi per qualche metro. Mi sono ritrovato praticamente in braccio un biondino e il suo surf. Lui rideva, io pure. Arrivata una nuova onda mi sono immerso e l'ho lasciata scorrere sopra di me. 
In acqua in un posto del genere si poteva stare poco. Sono tornato verso il mio posto sulla spiaggia. A fianco a me e al ragaz zo che mi aveva chiesto l'ora si è sistemata una negretta molto appeti tosa e molto sola. Mi sembra di essere in quella canzone dei Doors. 

Ho ripreso la lettura di Ne mesis. Sulla terra stanno studiando un sistema per costruire motori che fanno viaggiare le astronavi oltre la velocità della luce. Isaac un’idea bella come quella dei motori a curvatura di Star Trek non ce l’ha avuta, bisogna ammetterlo. 
Quando ho deciso che era ora di fermarsi, mi sono sdraia to a prendere il sole della California del sud. Non scottava troppo, anche perché aveva iniziato a soffiare il solito venticello poco attento alle mie esigenze di turista pigro. A fianco alla negretta, che nel frattempo si era messa ad ascoltare musica, due amici di mezza età stavano discutendo della partita dei Dodgers della sera. Uno ha detto che il ritorno di Va lenzuela a Los Angeles non era da perdere. La partita si giocava alle sette e io volevo chiamare la Valerie alle nove. Per la Valerie avrei perso la partita. Anzi, no, l'avrei guardata in televisione. 
Per attuare il mio piano mi sono alzato e ho preso la strada del motel con tutte le intenzioni di fare una doccia e guardarmi almeno due terzi della partita.
Quando sono arrivato all'albergo la luce non era più tale da giustificare i miei occhiali da sole e ci vedevo malissimo. Sono scivolato nella mia stanza e, dopo una doccia rapida, mi sono mollemente seduto davanti al televisore. 
Valenzuela se la doveva vedere con i Mets di New York. Ha iniziato bene, però dopo un po' le palline che lanciava gli tornavano indietro a velocità doppia. I Mets tiravano certe randellate che non finivano più. Howard Johnson gliene ha mandata una in orbita e Mc Reynolds gli ha spazzolato le basi con un missile che è andato dritto alla recinzione di sinistra. L'allenatore dei Dodgers ha lasciato Valenzuela sul monte di lancio fin che non si è arrivati alla tragedia di una serie interminabile di lanci scentrati. L'allenatore dei Dodgers è uscito dalla panchina e mi sono ricordato che si chiama Tom Lasorda ed è uno di quelli che si vantano di avere origine italiana. A proposito di origine, Valenzuela è meglio che torni in Messico. 

Erano le nove e ho spento il televisore. Ho composto il numero di telefono di Sue e in un primo tempo mi ha risposto qualcuno. Poi è partita la segreteria telefonica. Non ho lasciato messaggi e ho provato subito dopo a richiamare. Mi ha risposto ancora la segreteria telefonica e mi sono sentito impotente. Mi sono seduto sul letto e ci sono rimasto per quindici minuti buoni, che mi hanno aiutato a capire che essere soli è un opinione. Io non ero solo sulla spiaggia al pomeriggio. Non c'era nessuno con me, ma in fondo non mi aspettavo che ci fosse qualcuno e ho vissuto la giornata con una certa serenità. Ma adesso volevo fortemente essere con qualcuno e forse essere soli significa proprio questo: non essere con chi vorremmo accanto in quel momento. Me la appunto.
Le dieci e un quarto di un Sabato sera, sto aspettando che il telefono suoni diceva una canzone dei Cure di dieci anni prima. Mi sono ricordato il ritmo martellante, ma non mi sono fatto prendere dall'angoscia, almeno non del tutto. Sono uscito dalla stanza, rischiando di lasciare all'interno la chiave per la foga. Mi è tornata la voglia di una bella strada europea, con un bel ristorante coi tavolini all'aperto. Sulla strada 39 sfrecciavano invece le macchine. E' andata a finire che il solito 'Denny' mi ha accolto con il suo rassicurante arredamento da telefilm e i suoi sapori omologati. Mi sono concesso una cena abbondante e due tazze di caffè alla fine. Rientrato in camera ho acceso il televisore. Il solito canale che trasmette i film  'in esclusiva'  mi proponeva ‘Le relazioni pericolose’. Glenn Close, che parla un Inglese che io associo alla faccia della Thatcher, è l'ultimo ricordo che ho della serata, perché a quel punto mi sono addormentato come un sasso, senza nemmeno svestirmi.

16-L’ULTIMA VOLTA CHE HO VISTO LA VALERIE (in parte)
La Valerie era piuttosto guardinga. Io ho aperto il baule della Toyota Corolla bianca e ho estratto in un attimo le lettere che la Valerie mi aveva scritto. Per me era un grande momento. Ho capito subito che aver fatto il galletto con Liz e Patty apparteneva già al passato straremoto. 
Mi aspettavo qualcosa, però la Valerie non mi ha dato soddisfazione. Ha preso le lettere e se le è infilate dentro la camicetta. 
Io ho detto: -Pensavo che le dovessi avere tu. Non si sa mai che ti venga voglia di rileggere quello che mi hai scritto­
La Valerie ha serrato le mascelle con forza; se avesse avuto la lingua in mezzo ai denti se la sarebbe tranciata in un colpo, di sicuro: -Vuoi proprio che me ne vada arrabbiata, eh? Perchè non ci possiamo lasciare da buoni amici?- 
Ho capito che proprio di essere suo amico non mi importava. La volevo, senza tante storie. 
Per fortuna non ho detto niente di quel genere. Ho abbassato lo sguardo e ho sussurrato: -Valerie, io sono stato molto male dopo che sei partita- 
Non potevo credere di aver pronunciato una frase del genere. Mentre ancora cercavo di capacitarmi, Sue ha spento la macchina e i fari e si è accesa l’ennesima sigaretta. 
La Valerie si è fatta preoccupata: -Ah, povera Sue, la sto facendo aspettare troppo- 
Una rabbia furiosa mi ha preso, spandendosi dalla mia testa allo stomaco e stazionando al basso ventre per un po'. Ho pensato che il moto della rabbia che avevo percepito era forse la giustificazione biologica dell’espressione mi girano le balle. 

Non potevo comunque accettare che la Valerie se ne andasse in quel modo. -No, scusa. Evidentemente io e te non riusciamo più a comunicare, Valerie­
-Forse è perché non abbiamo niente da dirci- Questa era stata una mazzata. 
-Niente da dirci? E quelle lettere?­
-Quelle lettere sono un anno fa. Sono l'Italia. Qui siamo in America e io sono diversa in America rispetto alla persona che conosci tu. Io so che non ti piacerei qui-
Ho squadrato la figura minuta della Valerie. Ho guardato i suoi capelli da cocorita e le sue gambette corte che non potevano stare ferme. Sue intanto aveva spento una sigaretta e se ne era accesa un'altra.
-Forse devo andare, Rick­
Ho provato ad aggrapparmi a quel forse, ho cercato di capire se, magari inconsciamente, lei volesse restare ancora con me. L'aria della California del sud si era fatta intanto freschina. La Valerie ha avuto un brivido.
Ho provato con l’ultima carta: -Se potessi fare qualcosa per cambiare questa situazione, lo farei­
-Non ne dubito, Rick. Anzi, ne sono sicura. Però non puoi­
La sua voce stava arrivando a toni alti. Era anche un po' alterata. No, non ci sarebbero stati abbracci. Non ci sarebbero state lacrime e addii o, meglio ancora, arrivederci. La Valerie non vedeva l'ora di andare e io non avevo in nessuna maniera la forza per trattenerla.
Sono rimasto sgomento e senza parole. La Valerie mi ha incalzato: -Potrai dire a tutti che mi hai vista, che sono dimagrita, che ho vinto il titolo americano con i Raiders- quasi urlava, ormai.
Quanto poco avevo conosciuto quella ragazza piccola e strana. Tanto poco che ero arrivato a pensare che si potesse innamorare di me. E quello era un addio vero, non da film. Era un addio triste, forse anche un po' inutile. Magari era meglio che io mi ricordassi la Valerie ebbra per la birra Moretti e non quella con la voce stridula e le occhiaie. Era comunque un addio; per e me era L'ADDIO, la fine, il tramonto e tutto questo mi faceva sentire un sapore amaro in bocca. D'improvviso avevo fame e ho rimpianto la pizza che Sue aveva buttato nella spazzatura. La Valerie ha iniziato a tremare ma ormai era troppo tardi per abbracciarla e scaldarla.
-Come passerai questi giorni?- 
Sebbene avessi una gran voglia di dirle che li avrei passati come cazzo mi pareva, incredibilmente ho sussurrato che dovevo fare qualche spesa e che almeno una partita dei Dodgers la volevo vedere. 
Poi, di scatto, ho voluto vincere io: -Beh, Valerie, adesso ti saluto. Spero che continueremo a scriverci­
Purtroppo però ha vinto lei. Mi ha dato la mano. Voglio enfatizzare: mi ha proprio dato la mano e me l’ ha data anche molliccia, senza stringere la mia. 
Io ho cordialmente ricambiato. Ho, pur convinto che la costellazione delle Pleiadi stesse precipitando a velocità vertiginosa sulla Terra e che da un momento all'altro avrebbe illuminato tutto il cielo della California e mi sarebbe arrivata sulla testa sotterrandomi.
Quando la Valerie ha detto che sperava che mi divertissi alla partita dei Dodgers, ero già bello e sepolto. Una mia controfigura ha detto qualcosa tipo Mmmm  oppure Pfff  e la Valerie si è girata, camminando a passi lenti verso la macchina di Sue.
Non le ho guardato nemmeno il culotto. Non ne ho avuto il coraggio, perché quello era un addio, una cosa definitiva e anche brutta e non c'era spazio per adocchiare le sue chiappette prominenti, che ogni tanto mi avevano fatto pure sognare di sesso e lussuria. 
La Valerie è salita sulla macchina di Sue. Io le ho viste sparire nel buio e ho messo in moto la Toyota Corolla bianca.
Quella è stata l'ultima volta che ho visto la Valerie.
















23- CONCLUSIONE

Sono partito da New York per Zagabria con mezz'ora di ritardo. Da lì avrei raggiunto Milano.
Avevo già avvertito mia sorella che sarei  stato all’aeroporto di Milano Linate attorno alle 4 del pomeriggio di Lunedì 4 Settembre. Ero stato in America per un mese e avevo incontrato la Valerie troppo poco. Mi sono chiesto se, una volta arrivato in Italia, avrei comin ciato di nuovo a sentirmi  male alla fine delle giornate. Stop, per carità. Non avevo nessun bisogno di considerarmi già in Italia. In fondo mancava ancora quasi un giorno.
Ho sfogliato il Times al contrario. In prima pagina diceva che continuano a partire soldati diretti al canale di Panama. Faccia d’Ananas li sta facendo arrabbiare, gli americani. C’è un editoriale che dice che è inaccettabile, che Francisco Rodriguez sia presidente. Da noi, dopo che si è votato si lamentano tutti, ma nessuno dice mai cose come che è “inaccettabile” che siano stati eletti quelli che sono stati eletti. Soprattutto, non lo dice nessuno in Francia, in Svizzera, in Austria o in Yugoslavia. Non ho mica capito perché ci devono mettere il becco, gli americani, sulle cose di Panama. Gli sta bene: tra una decina d’anni gli devono ridare anche la gestione del canale. 
 Ho iniziato a sbirciare la biondina paffuta. Poteva essere americana, ma se lo fosse stata difficilmente avrebbe viaggiato con la Jat. Magari era jugoslava. Ma in fondo era improbabile che uno jugoslavo avesse i soldi per affrontare un viaggio in America. Più probabilmente era nord-europea, svedese o danese o magari olandese. Perché da quelle parti lì le ragazze viaggiano anche da sole.
Ho ostentato bene i miei giornali americani e poi, piegandomi verso di lei, mi sono espresso in un bell’Inglese: uere are iu goin tu in iurop?
La biondina paffuta è arrossita, ha farfugliato qualcosa di incomprensi bile e poi si è schiarita la voce: ai em from itali.
Non mi sono scomposto. Per un attimo ho pensato che potevo tranquillamente fare finta di essere americano e parlare in Inglese con una ragazza ita liana per dieci ore di fila. Poi  ho ricordato una riflessione che Robin Wood aveva fatto fare al suo  Savarese: -Da quando comincia la pazzia?-. 
Ho preferito allora convenire con Billy Bragg che -Non cerco di cambiare il mondo, sto solo cercando una nuova ragazza-.
Mi sono voltato verso la biondina paffuta e con un sorriso ho detto: -Allora tra di noi possiamo parlare in Italiano-





Biografia:

Riccardo Schiroli è nato a Parma nel 1963. Giornalista professionista e poliglotta (parla correttamente Inglese e Tedesco, comunica in Francese e Spagnolo), è entrato nel mondo della comunicazione come conseguenza dei suoi studi di Economia. Una volta Amministratore Unico della Comunicazioni Parmensi s.r.l., sulla fine degli anni ’80 si è dimesso dall’incarico e ha deciso di seguire la sua vocazione,  cercando di percorrere la strada del giornalismo. Prima di ottenere l’accesso all’esame di Stato per l’esercizio della professione, ha fatto in tempo a diventare responsabile dell’informazione di Radio Onda Emilia (novembre 1990) e poi (agosto 1996) responsabile del Telegiornale di Teleducato a Parma. Una volta professionista (2000) ha assunto la direzione di Teleducato Piacenza.
Nel 2001 ha scoperto internet e portato avanti i progetti dei siti Baseball.it (fino a fine anno) e Sportal.it (fino all’autunno del 2003). Dal 2002 ha iniziato una collaborazione con l’Ufficio Stampa della Federazione Baseball, della quale è Responsabile della Comunicazione dal gennaio del 2004.
Ha collaborato con i quotidiani La Gazzetta di Parma, La Tribuna di Parma e L’Unità in Italia. Con il periodico Baseball America e il sito MLB.com negli Stati Uniti. In rete trovate il suo blog www.riccardoschiroli.com.
“Non vuol dire dimenticare” è il suo primo romanzo. Nonostante il tono della narrazione in prima persona, non è necessariamente un lavoro autobiografico.