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mercoledì 28 gennaio 2015

Recensione- Le affinità elettive, di Johann Wolfgang von Goethe


Avviluppata dal fascino de "I dolori del giovane Werther", mi sono lanciata di testa a leggere questo dramma dal nome altisonante. Ad essere sincera, sono abbastanza convinta di aver caricato il romanzo in questione di troppe aspettative, dovute allo struggimento della precedente lettura. 

Ma andiamo per ordine: di cosa parla?
Eduardo -ricco barone nel fiore della virilità- e Carlotta riescono, dopo precedenti matrimoni più di convenienza che di sentimenti, a sposarsi e vivere insieme in un castello, curando la proprietà e l'enorme parco che la circonda. Hanno programmato di svolgere una stretta vita di coppia, limitandosi ai loro affari ma senza far entrare terzi nella loro esistenza, quando lui -che fa sempre danni in tutta la storia- aggira abilmente questo patto. Le propone di far stare da loro per un certo periodo, un amico: il  "capitano" ed è talmente insistente nella richiesta, che lei cede, ma gli fa sottilmente notare che, per rispettare il patto è stata costretta a far restare in collegio -dove per altro la creatura non brilla di luce propria, ma nemmeno riflessa- sua nipote Ottilia. "Nipotina" largamente  maltrattata dalla figlia di Carlotta, Luciana, che invece ci manca poco che conquisti il collegio. Ma Luciana in parole povere non ha una parte importante: è solo il motore per cui questa povera Ottilia viene accolta in casa. Eduardo pur di ottenere l'amico con sé, avrebbe acconsentito anche ad allevare in giardino una foca, quindi non si oppone alla più che valida lamentela della moglie... ma andiamo avanti. Arrivano il "capitano" -che viene chiamato sempre così. Non gli è dato almeno di avere un nome? Ok, non fosilizziamoci- e la nipote. E qui giunge il bello, che può essere tranquillamente riassunto in poche righe del libro.
<<Siccome sei stata tu a stuzzicarci,>> ribatté Eduardo, <<ora non te la cavi tanto facilmente. I casi più complicati sono proprio i più interessanti. Solo studiando questi, si conoscono i gradi di affinità, le relazioni più prossime e vigorose, e le più lontane e deboli.  Le affinità cominciano ad essere interessanti quando producono separazioni.>>
Ma ancor più nello specifico, questo discorso viene ribadito fino alla morte durante una conversazione. Quindi, che una relazione può essere  superata da un'attrazione più forte, è un concetto largamente assodato e assimilato. Se non ne siete certi, ecco ancora qui che ritorna:
<<Allora,>> disse il capitano, <<torniamo a quello che già prima abbiamo menzionato e discusso. Per esempio, ciò che chiamiamo calcare, è una terra calcarea, più o meno pura, intimamente combinata con un acido leggero, che conosciamo solo allo stato gassoso. Se immergiamo un pezzo di calcare in acido solforico diluito, questo attacca la calce e si trasformano in gesso, mentre quell'acido leggero e aeriforme si libera. In tal modo è avvenuta una separazione e una nuova combinazione, e ci si sente davvero autorizzati ad impiegare la parola affinità, perché sembra proprio che una relazione venga anteposta ad un'altra, che si faccia una scelta.>>
Questo è un approfondimento interessante, che colpisce e già s'insidia il dubbio nella mente: l'idea che possa avvenire uno scambio simile, ma con le persone. Benissimo; ok, meraviglioso: quando si comincia?
Ed ecco qui la brutta notizia: prima che avvenga qualcosa, preparatevi ad affrontare minuziose ed estenuanti descrizioni del giardino... di come spostano questo o l'altro sentiero, delle milletrecento tipologie di fiori che vengono piantati -come se servisse per forza una laurea in botanica per leggere una vicenda in cui due rispettive passioni s'incrociano-, della struttura spostata un po' più in alto o un po' più in basso al fine di vedere il paesaggio in modo ottimale; del tragitto e la sua biforcazione, di cui un braccio devia nel cimitero; del laghetto; di come vengono risistemate le lapidi -che poi mi dovrebbero spiegare come a Carlotta venga in mente di spostarle, secondo quale logica- e la chiesa... vi sta passando la voglia di leggere la recensione, eh?! Ecco, ora avete pressappoco una pallida idea di cosa potreste trovare. Bastava spiegare che ci sono un parco, un lago con una barca e una chiesa con cimitero. Questo era quanto utile alla narrazione.
Che poi facendo questi lavori, il "capitano" leghi con Carlotta conquistando la sua fiducia ed Eduardo si faccia sempre più vicino a Ottilia, ok avviene, ma senza un pathos particolare. Nessuno inizialmente si strugge; anzi c'è lo scambio di coppie e sembra andar bene a tutti. Ognuno prende la faccenda come se fosse naturale e scontata.
Il problema è quando si tratta di legalizzare le unioni, metterle su carta. Allora escono fuori miliardi di dubbi, soprattutto di Carlotta.
Eppure ho molte lance da spezzare a suo favore. Innanzitutto è colei che cerca di tenere in piedi il suo matrimonio -che in teoria è ciò che definirei "normalità": questa sconosciuta- e non dà di matto come Eduardo, che parte completamente. Anche il "capitano" si dimostra molto bilanciato, rispettoso e razionale... è forse per questo che gli è dato di sputar fuori tre frasi in tutto il libro. Troppo sensato.
Ma veniamo agli altri due. A me non disturba affatto questa vena fortemente passionale di Eduardo, che straripa e non riesce a reprimere in alcun modo.

Nei pensieri e nelle azioni di Eduardo non v'è ormai misura alcuna. La certezza d'amare e d'essere amato lo spinge verso l'infinito. Come vede diverse le stanze, e tutti i luoghi intorno! In casa sua non si ritrova nemmeno più, la presenza d'Ottilia offusca ogni altra, è come sprofondato in lei, non è capace di riflettere, la coscienza è muta; tutto ciò che stava sotto  controllo nel suo carattere, prorompe, il suo essere dilaga totalmente incontro a Ottilia.

Va bene che prima di agire non riflette una e dico una volta, ma io lo biasimo per un'altra questione.
Innamorati di Luciana; innamorati della prima cameriera che incroci uscendo dalla tua stanza, del primo cane randagio in cui t'imbatti per strada. Fai proprio il cavolo che ti pare...
Ma perché, di tante donne normali, devi restare colpito a morte da un soprammobile umano? Ottilia è stupefacente ad occhio e croce come un comodino. Ed è già un gran complimento. Persino la direttrice del collegio dove stava in precedenza, va dicendo che è tarda... e il suo insegnante la difende solo perché è una bella ragazza. Ma salvo quello, è emozionante come la borsa dell'acqua calda della nonna. Per comprendere un concetto glielo devi spiegare quindici volte e approfondire, non afferra al volo nulla. Sulle prime è inutile e invisibile. Poi c'è quel gesto stranissimo che fa quando non vuole fare una cosa che le viene chiesta: giunge le mani, fa l'inchino, guarda in alto e poi gli occhi di chi gli pone la domanda -guarda caso, questa stramberia funziona pure-.... ha un senso?
Da cosa diamine è stato colpito questo uomo, non lo so.  Forse, a scapito della poesia, dal fatto che lei sia molto giovane. E a quanto pare un bel vedere. Carlotta invece mostra un'infinita pazienza, sensibilità e forza: sopporta situazioni disumane con una semplicità disarmante...e altrettanto disarmante è il fatto che cerchi di riparare il matrimonio con suo marito, nonostante sia attratta dall'altro; peggio ancora che perdoni e protegga a cuore aperto Ottilia, nonostante tutto ciò che riesce a combinare aiutata dalla sua ottusità-.
Charlotta è una donna da stimare... ma da dove tiri fuori tutta quella pazienza, devo ancora capirlo.
La narrazione è percorsa da personaggi che non servono. Troppi. Si susseguono persone più inutili di Ottilia, che addirittura cambiano poco o niente, fanno comparsa. Giunge un architetto; siccome a modo suo è un tipo artistico, interessante, ovviamente Goethe lo manda via appena  terminati i lavori. Come anche Luciana: non mi sta simpatica, ma alla fine è quasi comprensibile la sua voglia di commettere atti di bullismo verso Ottilia. È come sparare sulla Croce Rossa.
Ciò che salta subito all'occhio, è che sembra che i personaggi si caratterizzino per contrasti -Carlotta/Eduardo, Ottilia/Luciana e così via- più che per un loro modo di essere ben preciso. Non ci sono mezze misure: c'è chi esagera in qualsiasi cosa e che si trattiene sempre.
Dal punto di vista dello stile, è incredibilmente prolisso in termini di dettagli e descrizioni -di paesaggi, fiori e co.-, ma comprende anche concetti profondi, analisi della psicologia umana e della società.
Però avrei francamente preferito che fossero inquadrate in un contesto ben preciso: un discorso. Invece sono frasi bellissime che però provengono dal diario di Ottilia -l'unica cosa utile che ha fatto da quando esiste-, sentite da lei non so dove e appuntate lì a casaccio senza preamboli né approfondimenti. Sono sconnesse; il che le rende molto simili agli aforismi della Perugina. Ciò mi fa pensare che l'autore abbia voluto buttar giù sue riflessioni personali, senza curarsi di dargli un'inquadratura esatta. Come se le avesse avute in testa, insieme a un disperato bisogno di gettarle nel libro alla rinfusa. Per forza.

Le grandi passioni sono malattie senza speranza.Ciò che potrebbe guarirle, è proprio ciò che le rende pericolose. 

La passione confessandola s'esalta e s'attenua. In nessun' altra cosa sarebbe forse più da desiderare la via di mezzo, che nel confidarsi e nel tacere con coloro che amiamo.

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Si può imporre tutto alla società, salvo ciò che ha una conseguenza.
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Dipendere perché lo si vuole, è la condizione più bella: e sarebbe impossibile senz'amore!

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Non c'è maggior consolazione per la mediocrità, del fatto che il genio non sia immortale.

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I folli e le persone intelligenti ugualmente sono innocui. I mezzi matti e i mezzi savi, questi sono i più pericolosi.

Non manca, quindi, di pensieri originali e ben concepiti, di approfondimenti emotivi... però a volte son generici, a volte per sentito dire. Ci sono meno affondi specifici nelle mentalità dei personaggi di come ci si potrebbe aspettare e troppi nell'illustrare le minuzie del giardino, o riferiti all'umanità a grandi linee.
Nonostante le emozioni contrastanti che ho provato nella lettura, è una storia che a tratti sa far appassionare e parlare di sé. Forse sono rimasta troppo attaccata a Werther per apprezzare fino in fondo -quell'opera mi ha trapassata da parte a parte come una freccia; forse non posso pretendere lo stesso effetto-, ma la classe non manca.
Li univa reciprocamente, un fascino indescrivibile, quasi magico. Abitavano sotto il medesimo tetto; ma persino senza che  pensassero l'uno all'altra, occupati da altre cose, distratti qua e là dalla compagnia, finiva che si riaccostavano. Erano in una sala, e dopo un po', ecco che s'affiancavano, o sedevano vicini. Solo una stretta prossimità poteva acquietarli, ma pienamente, e quella prossimità bastava: non c'era bisogno di sguardi, di parole, di gesti, di un contatto; soltanto stare insieme. Allora non erano più due persone, ma una sola, in una beatitudine dimentica e perfetta, in armonia con se stesse e col mondo. Se uno di loro due l'avessero confinato nell'angolo più remoto della casa, l'altro, spontaneamente, senza proporselo, un po' alla volta l'avrebbe raggiunto. La vita era un enigma per loro, e la soluzione la trovavano solo insieme.

venerdì 23 gennaio 2015

Tutto Hunger Games in tre comode recensioni piene di spoiler.

Eccomi qui con un tre in uno irrinunciabile: l'intera saga di Hunger Games, pressurizzata in un libricino piccino picciò, che quando si tratta di leggere in viaggio è davvero una pacchia.
Per chi non lo sapesse ancora (l'ho praticamente urlato ai quattro venti), prende il nome di Flipback (all'estero queste cose esistono da una vita) e si sfoglia  dal basso verso l'alto, come un blocchettino dalle pagine particolarmente sottili.
Invito ogni tipo di scettico a provare per credere!
Ora veniamo ai tre libri. Storia avvincente su diversi piani, ti conquista prima per il sorprendente contesto, poi per la forza d'animo dei personaggi, le cui storie colpiscono ciascuno nel proprio intimo in modi differenti. Ma senza indugi, preferisco entrar subito nel dettaglio!
1. Hunger Games

Se dovessi definire con una parola sola il primo capitolo di questa promettente saga, molto probabilmente userei il termine "travolgente". Vieni assalito da un branco di emozioni fameliche che non ti danno modo di respirare. La narrazione sembra figlia di Orwell, delle grandi saghe fantasy come Harry Potter... e della tv. Riuscite a immaginare tante cose così distanti tutte insieme? Per essere un libro con tendenze distopiche, ha combinato talmente tanti elementi da nascondere le reali intenzioni. C'è un sistema che non si può sovvertire. Panem ha una Capitol City che regna incontrastata e dodici distretti assoggettati ad essa. Svolgono ognuno una funzione (ad esempio il 12 estrae il carbone; l'11 è per l'agricoltura e così via) ma poco si sa di ciò che accade al di fuori della propria limitazione territoriale. Non è possibile viaggiare né raggiungere un altro distretto, tantomeno la Capitol senza permessi straordinari. Questo sarebbe già abbastanza triste senza valutare gli Hunger Games: sanguinari reality in cui due tributi (ragazzi dai dodici ai diciotto anni scelti mediante un'estrazione) per ogni distretto vengono chiusi in un'arena insieme agli altri, al fine di ammazzarsi reciprocamente fino ad ottenere un solo sopravvissuto: il vincitore che otterrà onori e glorie. Saltano subito all'occhio proposizioni dirette, rapide come frecce. Frasi di uno stile che sa essere tanto essenziale quanto ampiamente descrittivo. Rende perfettamente il senso di quanto narrato; il lettore non fatica affatto ad immaginare le scene, a vivere come se ne facesse parte. In certi punti le parole si serrano tanto da far male. Come se creassero silenzio, sgomento con la loro crudezza. I concetti più spietati vengono resi senza mezze misure, con sincerità disarmante e tagliente.
Ma c'è anche il cibo, se sai dove cercarlo. Mio padre lo sapeva, e mi ha insegnato qualcosa prima di essere fatto a pezzi dall'esplosione di una mina. Non è rimasto niente da seppellire. Io avevo undici anni. Ne sono passati cinque e mi sveglio ancora urlandogli di scappare.
La trama è ben tessuta. Funziona l'ambiente, funzionano i personaggi e le azioni che essi compiono. Il contesto Orwelliano è imponente, lo si ritrova fin da subito e si staglia come un ostacolo insormontabile e un pericolo costante. L'autrice è stata molto brava nel presentare questa minaccia in modo così palese, che poi in un certo senso viene ammorbidita un po' dalle vicende umane. Non desta lo stesso interesse delle prime pagine in cui è lampante; eppure questo controllo perenne, resta un rumore di fondo semplicemente assordante. Tutto ciò avviene anche perché, i pensieri della protagonista sono più liberi di fluire nelle battute iniziali, dove si permette di esternare invettive ben precise: lei è di indole ribelle e non ha poi così paura di darlo a vedere.
Prendere i ragazzini dai nostri distretti, obbligarli ad uccidersi l'un l'altro sotto gli occhi di tutti... é così che Capitol City ci ricorda che siamo totalmente alla sua mercè. Che avremmo ben poche possibilità di sopravvivere a un'altra ribellione. Indipendentemente dalle parole che usano, il messaggio è chiaro. "Guardate come prendiamo i vostri figli e li sacrifichiamo senza che voi possiate fare niente. Se alzate un dito, vi distruggeremo dal primo all'ultimo. Proprio come abbiamo fatto con il Distretto Tredici."
Katniss è la figura principale, ma c'è sotto un'impalcatura forte, imponente che la sorregge e le permette di essere ciò che è. Lei è una ragazza forte, fiera. Sfama la sua famiglia, ma non è pratica di sentimenti; quello è un mondo che scoprirà solo grazie a Peeta, secondo tributo del suo distretto che, pur essendo suo rivale nell'arena, si dichiara per lei davanti alle telecamere di tutta Panem. Prima c'è stata l'amicizia di Gale, che in teoria è sempre rimasta un sentimento innocente; l'amore di Peeta invece la confonde e spiazza più della violenza, perché perlomeno la violenza è una cosa certa, di cui si può fidare. Infatti non sa come reagire, si lascia guidare dalla diffidenza. Poi è confusa, non lo sa. Non sa come trattare questo amico/rivale/innamorato/pericolo che esce allo scoperto così spavaldamente. Il tributo del Distretto 12 è un tipetto molto particolare. Sa farsi notare proprio per essere realmente complementare rispetto a Katniss: è un ragazzo molto in contatto con la propria parte emotiva e non ha affatto paura di sembrare vulnerabile. Si rivela più umano di lei in parecchie circostanze, ma non è così semplice capire e fidarsi, quando in ballo c'è la vita.
Un Peeta Mellark buono è molto più pericoloso di un Peeta Mellark crudele, per me. I buoni hanno un modo tutto loro di entrarmi nel cuore e metterci radici. E non posso lasciare che lo faccia Peeta. Non dove stiamo andando.
Hunger Games non è solo questo. Tra le righe comunica molto più di quello che sembra e non contiene esclusivamente richiami orwelliani. Ci si accorge di ciò quando Katniss arriva a Capitol City ed è tutto così ricco, nuovo, semplice rispetto alle sue parti dove per mangiare devi cacciare e non puoi sempre contare sulla corrente elettrica. Dove la sopravvivenza è la parola chiave e non c'è posto per le cose frivole. Dove non c'è tempo per chiedersi come passare il tempo, perché impiegato costantemente nel disperato tentativo di non morire. Allora si pensa al benessere moderno, al fatto che tutto bene o male in occidente è possibile, ma in altri luoghi no. Ci si sente quasi ingiusti a vivere nel benessere, ad essere così vicini ma sempre costantemente lontani dalla felicità. Ad avere qualsiasi cosa, ma percepire ogni volta il nulla intorno a noi.
A Capitol City la gente fa interventi chirurgici per apparire più giovane e più magra. Nel Distretto 12  i segni della vecchiaia sono una specie di conquista, data la quantità di persone che muoiono giovani. Appena vedi un anziano, vuoi quasi congratularti con lui per la sua longevità, chiedergli il segreto della sopravvivenza. Una persona ben pasciuta la invidi, perché non tira avanti a fatica come la maggior parte di noi. Ma qui è diverso. Le rughe non sono apprezzate. Una pancia rotonda non è indice di successo.
Perché sono una persona magnanima cerco sempre di non spoilerarvi, ma la faccenda della ghiandaia imitatrice è troppo grande e bella. Io mi sono innamorata di quell'animale, tanto che ho comprato addirittura una collana con esso. Non ho ancora visto il film, ma non oso nemmeno immaginare quanto possano essere belle le scene in cui compare quell'uccello. Credo propro che, detto questo, mi lancerò a seguitare la lettura. Era dai tempi di Harry Potter che non mi esaltavo così per una saga.

2. La ragazza di fuoco

Chiedo l'aiuto di qualche anima caritatevole, perché sinceramente non capisco. Mi auguro che ci sia un massiccio errore di traduzione, altrimenti non mi spiego perché Katniss e compagnia bella continuino con nonchalance a indossare l'accappatoio sopra il pigiama. Viene spontaneo chiedersi a questo punto, se dopo la doccia si asciughino con la vestaglia o meno. Va bene che ogni distretto ha le sue usanze, ma il 12 in questo è piuttosto eccentrico. Poi ci si lamenta degli stramboidi di Capitol City... Comunque, il  secondo volume della brillante saga si caratterizza come ben strutturato, tanto che concede un punto della situazione quasi continuo. Si rende piuttosto raggiungibile anche laddove qualcuno partorisse la geniale idea di saltare il primo perché si è svegliato male la mattina. Rispetto ad Hunger Games parte in modo meno programmato e scontato, è una continua fonte d'imprevisti e ti tiene con la faccia incollata alle pagine. Sempre.
-Dev'essere un sistema molto fragile se basta una manciata di bacche a farlo crollare.  Resta in silenzio a lungo, mentre mi studia. Poi dice semplicemente: -È fragile, ma non nel modo che immagina lei.
Brusco esordio con l'arrivo del Presidente Snow, che rende già pepate le battute d'inizio e fa saltare il cuore in gola con le sue intimidazioni. Cattivo piuttosto atipico: ora non saltatemi alla giugulare però non riesco a provare una totale antipatia per quest'uomo che si prende quasi a battutine sarcastiche con Katniss. I due hanno un modo di punzecchiarsi che, nonostante la pericolosità della situazione la rende divertente. Quasi ci fa perdere l'idea di dramma che dovrebbe percorrere circostanze simili.
Quando il pubblico scandisce il mio nome, sembra più un grido di vendetta, che un'acclamazione. Quando i Pacificatori intervengono per calmare le folle turbolente, quelle premono contro di loro anziché arretrare. E so che non c'è nulla che io possa fare per cambiare le cose. Nessuna dimostrazione d'amore, per quanto credibile, potrà invertire il corso degli eventi. Se porgere quelle bacche fu da parte mia un atto di momentanea follia, allora quella gente abbraccerà anche la follia. 
Questa nuova storia porta con sé alcune rivelazioni, tipo l'audacia di Cinna...ho sempre pensato che fosse una personalità molto interessante. Peeta è incantevole come al solito (non a caso è il mio personaggio preferito), nonostante anche lui ne combini parecchie; pollice su per Katniss che solitamente è un uomo: caccia, pesca, uccide, spacca case e non versa una lacrima nemmeno se le tiri una cipolla aperta in faccia... qui sarà la tensione, saranno le rivolte, sarà un convincente Presidente Snow, sarà Gale preso a frustate, sarà il tornare nell'arena, ma finalmente si vede il pathos che il lettore aspettava. Era anche ora che questa ragazza scoppiasse un po' invece di fare il robocop della situazione: non poteva seguitare all'infinito a mostrare la stessa intensità emozionale di una busta abbandonata per strada sotto la pioggia (che già mi commuove di più perché è un'immagine poetica). Sia ringraziata la scrittrice, che ha sciolto la calotta polare di Katniss sprofondandola in una dimensione vulnerabile e umana in modo improvviso e giusto: come se, a forza di tenere imbrigliato con violenza tutto ciò che prova fosse crollata all'improvviso e senza rimedio. Entusiasmante trovare un Peeta sempre disposto ad adeguarsi agli stati d'animo di lei, sempre pronto a proteggerla come un guanto perché lei sa sopravvivere solo quando si tratta di uccidere; tuttavia non sa affrontare tante altre situazioni che la rendono anche troppo fragile. Katniss che si lascia andare al suo dolore e lo vive, si rivela nettamente più interessante di un'assassina ermetica che agisce senza sentir niente.
Mi cedono le ginocchia e Gale mi sostiene. Mentre l'alcol mi annichilisce la mente, sento la bottiglia che va in pezzi sul pavimento. Appropriato, direi: è evidente che tutto mi sta sfuggendo dalle mani. (...) Devo essere forte. Mi sforzo di assumere una posizione eretta, mi scosto i capelli bagnati dalle tempie pulsanti e mi preparo all'incontro. Loro due compaiono nel vano della porta, portando tè e pane tostato, i visi colmi di preoccupazione. Apro la bocca con l'intenzione di esordire con una battuta ma scoppio in lacrime. E addio all'essere forte.
Peccato per Gale, che contrariamente a come sembrerebbe dalla citazione, esce ancora poco allo scoperto. In compenso saltano all'occhio personaggi come Finnic Odair, che non spiccherà solo per bellezza, oppure Johanna Mason dal carattere rovente. L'arena nuova è tutto un programma: niente a che vedere con quanto trovato nel primo libro. Anche la totale imprevedibilità degli avvenimenti prima e dopo (fantastica la trovata con gli Strateghi), rende la storia scorrevole, incalzante e crea la smania di leggere per sapere come va a finire. Il mix che ne consegue  è un coltello che ti si pianta in piena pancia e scende, e continua sadico ad aprirti in due... e quando ne hai abbastanza non si ferma lo stesso.
Ma credo di aver sperato un po' di...cosa? Di moderazione? Di riluttanza, quantomeno. Prima di attivare la modalità massacro. E vi conoscevate tutti, penso. Vi comportavate da amici.
La carta vincente a parer mio è l'affondo, l'introspettività massiccia  che arricchisce l'opera e l'accompagna. In Hunger Games c'è stato il momento meraviglioso, tragico e carico della morte di Rue, ma lo si può definire l'apice emotivo del libro. Qui invece si trivella senza pietà né discrezione la superficie per  portare a galla più sentimenti, più vita. Colpisce persino portando il lettore nel passato a scoprire antichi dolori rimasti sepolti troppo bene. Inutile a dirlo: La ragazza di fuoco vince su tutta la linea e non solo per come scandaglia l'anima dei personaggi; la nuova avventura, se vi piacciono le cose imprevedibili, non vi lascerà delusi.

3. Il canto della rivolta

Parliamo di Gale? Ma no, facciamolo più tardi... preferisco non inveire subito. Vi dico solo che sono molto molto molto molto MOLTO, lieta di aver visto bene fin dall'inizio. In genere sono contraria a qualsiasi forma di spoiler. Però, stavolta avverto subito che non mi fermerà nessuno. Le vicende iniziali si snodano in modo decisamente tiepido, tanto che si potrebbe dividere il libro in due parti: la seconda raggiunge il livello del secondo capitolo della saga; la prima si mostra sottotono, tempestata dai problemi di Katniss e compagnia bella. Pittoreschi e angoscianti sono alcuni momenti nel distretto 12 che vale la pena citare, perché proprio a livello espressivo sono di una potenza allucinante.
Seguo la strada per abitudine, ma è una pessima scelta, perché è piena dei resti di chi ha cercato di scappare. Alcuni sono stati completamente inceneriti. Altri invece, soffocati dal fumo, sono fuggiti dal grosso delle fiamme e ora giacciono lì, nel fetore dei diversi stadi della decomposizione, carogne per i saprofagi, ricoperti di mosche. Vi ho ucciso io, penso mentre oltrepasso un ammasso di cadaveri. E ho ucciso voi. E voi.
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Le ceneri si levano a folate tutto intorno a me, così mi copro la bocca con l'orlo della camicia. Non è il fatto di chiedermi cosa respiro, ma chi, a minacciare di soffocarmi.
Bene, la situazione è la seguente: Katniss si trova nel distretto 13 dove ci sono un mucchio di regole, tutto è razionato e si devono seguire programmi rigidi. Si sono presi tutta questa pena di salvarla, convinti che lei avrebbe incarnato la rivoluzione...ma lei non è tanto convinta, perché Snow ha in mano Peeta e di conseguenza può abbattere la ghiandaia abbattendo lui. Lei infatti teme ripercussioni sugli altri prigionieri di Capitol City, per questo valuta a fondo i pro e i contro prima di accettare. La Coin, ovvero la donna che dirige il 13, per certi aspetti è quasi peggio di Snow. Farebbe di tutto per raggiungere la vittoria e si mostra molto rigida fin dall'inizio. Per giunta non sembra fare i salti di gioia per la presenza della ghiandaia, nettamente un intralcio ai suoi piani già ben delineati. La guerra si scatena su più fronti, ma Katniss, Finnick (che nei dintorni sembra sempre quello più capace di capirla dopo Peeta), Gale, Johanna e co. non lottano in prima linea: i loro combattimenti si limitano spesso a scene utili per registrare dei pass-pro che Capitol City dovrà vedere. I vincitori hanno il risvolto pratico di portavoce; non di combattenti. Proprio durante una di queste "passeggiate" per registrare i pass-pro c'è una digressione stupenda in cui Katniss canta una canzone, L'albero degli impiccati: brano profondo, dalla poesia agghiacciante che si snoda strofa per strofa nel suo vero, oscuro significato. Ho apprezzato tanto che lei sia scesa nei meandri a raccontare, a far sentire la vera essenza del testo. È uno dei pochi momenti in cui emerge l'anima di questa protagonista così tormentata. Che tuttavia non assolvo, per via di una scelta disumana che farà proprio nel finale. Si dimostra, a tratti persona sensibile... ma non fatta di una bella pasta. Dicevamo?! Ah, ecco! Si organizza una missione soprattutto per recuperare Peeta, che appassisce giorno per giorno sotto l'occhio delle telecamere, strumentalizzato nelle interviste e addirittura picchiato a sangue in diretta tv. Questo ragazzo non si smentisce mai. Lo riportano indietro insieme a Annie, ma lui è stato depistato: i suoi ricordi in merito a Katniss sono stati deviati pesantemente al fine d'indurlo ad odiarla. Infatti lui è instabile, confuso e pronto ad aggredirla. Eppure conserva uno strano barlume in sé. Anche nelle azioni peggiori che commette, per me Peeta è l'unico che esce davvero pulito da tutto. L'unico a non essere spietato e disumano.  Sarebbe da amare a prescindere, perché non ha gettato la sua anima nel water e ha cercato di ricostruire sempre, mentre molti altri personaggi erano troppo occupati a sfogare le loro frustrazioni su qualcun altro, a far scontare a qualche innocente i torti subiti.
Ora veniamo a Gale.
Capitol City si è portata via tutto, e ora sono sul punto di perdere anche Gale. Il collante del reciproco bisogno che ci ha legati  così strettamente  per tutti quegli anni si sta sciogliendo. E negli spazi vuoti che si aprono tra noi compaiono chiazze scure, non luce. 
Nel frattempo lui guadagna spazio nel 13, diventando il cagnolino della Coin. Per tutti quelli che volevano che la bella gli finisse tra le braccia, son contenta che il finale vi sia andato di traverso. Perché Gale è profondamente arrivista e se l'avesse amata davvero non si sarebbe messo a fare ciò che ha fatto. Il ragazzo è abile e strategico...ma privo di pietà. Lo dimostra a pieno nel distretto 2, quando senza esitazione fa cedere l'Osso (è una "montagna" che in parole povere fa da base al distretto) riservando a coloro che ne usufruivano la stessa morte che ha sperimentato suo padre in miniera; lo dimostra quando idea trappole progettate per colpire prima i bersagli e successivamente i soccorsi; lo dimostra quando parla di Katniss con Peeta dandole della calcolatrice; lo dimostra dando più confidenza al capo del 13, che alla sua migliore amica di una vita di cui dice di essere innamorato. E dire che a un certo punto ci avevo quasi creduto, che fosse un tipo spontaneo. Insomma, Gale da quando si è presentato ha fatto due cose giuste: farsi frustare e quella lacrimuccia smangiucchiata... e forse neanche quelle erano disinteressate. Era palese che non avrebbe mai funzionato con una Katniss così cauta e spaventata. Lui non è nemmeno quell'innamorato perso che si sforza di far credere ogni tanto: a Gale importa solo della vendetta, anche al costo di giocarsi tutto il resto con essa. Ha una personalità molto amletica.
Quando sollevo lo sguardo, capisco che Gale l'ha presa diversamente. La sua espressione dice che non esistono abbastanza montagne da frantumare né abbastanza città da distruggere. La sua espressione promette morte.
Il finale può sembrare brutale e spietato, specie per la dinamica della missione finale in cui Katniss e soci improvvisano nel più colorito dei modi e ci sono parecchie perdite. La peggiore a parer mio è quella di Finnic, che spezza in tronco l'unica storia d'amore dal percorso in linea di massima coerente. Eppure l'insieme mi è piaciuto: non riuscivo a staccare la faccia dalle pagine e ho fatto di tutto per volare fino alla parte terminale sorprendente, schiacciante. Non è tanto la lotta contro gli ibridi la maggiore sorpresa, quanto il precipitoso sprofondare della situazione in un pianto senza rimedio. Effettivamente ero pronta a qualsiasi cosa, tranne a ciò che poi è accaduto realmente. E qui mi fermo con gli spoiler... eccetto per il fatto che tra Peeta e Gale è andata benissimo così: lei aveva una scelta sola e l'ha sempre avuta. Non poteva dirigersi verso un portatore di morte, quando l'unica cosa di cui aveva bisogno era una speranza. Nel complesso Hunger Games si presenta come una saga fantastica, in cui a brillare di luce propria è il secondo libro. Sarebbe stato molto semplice cadere nello scontato, eppure ci è stato garantito l'effetto sorpresa.

giovedì 22 gennaio 2015

Subsonica. "Una Nave in una Foresta" e il suo affondo nei meandri dell'anima.

Settimo album della band, dal nome che annuncia uno smarrimento totale, è più che mai capace di sorprendere e colpire il cuore; tanto che non ero lì con l'ansia di recensirlo: mi ha colta alla sprovvista, con una canzone che fa così male, che non puoi evitare di parlarne al mondo. Sì, mi riferisco alla traccia sei, che a parer mio fa da traino a tutte le altre. Non posso fare a meno di commentare un lavoro così ben fatto e complimentarmi di cuore per ciò che ho emotivamente ricevuto.

1-Una nave in una foresta.
Ottimi presupposti di partenza. Siamo già nel territorio "Subsonica".
Si viene trascinati in un'oscurità dai toni tetri. I sintetizzatori come sempre fanno il loro lavoro in una canzone ben calibrata e pesata, che non presuppone abbandoni disperati. Eppure siamo in una voragine spaventosa. È un puzzle di frammenti, di tanti rimpianti che si comprimono in un solo spazio. Si percepiscono nel contempo una certa inquietudine per il futuro, un forte senso di vuoto e di abbandono, combinati all'ansia di correggere il tiro. 

Ci si sente come se i nostri errori ci aspettassero tutti in un luogo ben preciso, in attesa di saltarci addosso per dilaniarci senza pietà.
Un'analisi di coscienza difficile, complicata che presuppone un cambiamento radicale e profondo.
Un'assoluzione? Non si sa.

         Stanze vuote da riempire di presenze buone
e nuove rotte da ridisegnare
al largo dagli errori, senza dimenticare quello che ci faceva stare bene,
mentre il coraggio scivolava lentamente verso un nuovo oblio.
È presto per guardare indietro;
in quale luce ti vedrò.
È presto per girarsi e guardare indietro;
in quale luce ti vedrò.
In quale istante ti perderò:
ci sarà un tempo, non adesso.
2-Tra le labbra.
Incarnazione dell'attesa, è impregnata di un amore ancora platonico. Un oscuro limbo di ombre, un letto di fantasmi accompagna le parole che partoriscono in piccole gemme, una speranza tiepida.
La speranza stessa teme di crederci troppo, dal momento in cui viene esposto in modo fin troppo lucido (seppur implicito, andando per esclusione) cosa implicherebbe un no.
Brano particolare, nasconde tra le righe una disperazione straziante; una minaccia di oblio in caso di risposta negativa.



Vorrei saper pregare,

con le mie dita scure;

forse puoi farlo tu per me...

Che aspetto di sapere,

mentre non riesco a dire che,

che sarò salvo solamente...

Se...se un tuo sì,
se un tuo sì,
si accende tra le labbra.
Se un tuo sì,
se un tuo sì,
esplode la sua gloria.

3-Lazzaro.
Una bomba nucleare. Primo singolo, "Lazzaro" è una detonazione inaspettata dopo il torpore delle composizioni precedenti. Rapida, adrenalinica, potente, imperativa. Una scossa elettrica. Un grido profondo dell'anima ordina un risveglio immediato: ci ricorda che abbiamo perso tutto... ma siamo vivi e perfettamente in grado di riprendercelo con gli interessi. Invade l'aria con la sua forza e insistenza, la molesta. Lazzaro è un'aggressione musicale che lancia un monito importante: "Noi siamo padroni del nostro futuro. Della nostra vita".
La prepotenza delle note porta l'ascoltatore ad uscire dal guscio; predispone verso una risolutezza nei confronti degli obiettivi prefissati. 
L'impressione a caldo del primo ascolto, è di avere addosso tutta la violenza esuberante dell'estate dopo un inverno monotono, durato troppo per qualsiasi umana sopportazione. Si ha la sensazione di trovare la forza per vivere davvero; ci si sente forti, carichi. Travolti da un tornado di entusiasmo.
Finalmente vivi e non per finta.
Finalmente capiti e non dal politico di turno che si beffa del cittadino inerme, invece di risolvere davvero. Perché la musica capisce realmente e sa raggiungere parti di noi che non immaginavamo nemmeno di avere.
Io, dopo l'ascolto, avevo realmente voglia di mettere ordine subito alla mia esistenza.

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Ora che sei un’emozione scaduta;
ora che sei una certezza tradita;
ora che sei un’ambizione svenduta,
chiuso nel tuo sepolcro.
Quello che avevi oggi non vale più.
Hai studiato, creduto, lottato e sofferto.
C’era un sorriso negli occhi non c’è più;
col futuro qualcuno ha giocato d’azzardo.
Alzati e cammina, per scoprire di essere vivo come non mai.
Lazzaro,
stamattina, e resuscita un pezzo alla volta la volontà.

4-Attacca il panico.
Frenetica, confusionaria e movimentata, provoca il fiato corto, enfatizzata da un sussurro meccanico. Quello strascico a bassa voce che libera visioni, dandogli corpo, vita. L'intero insieme  suggerisce frenesia e paura. Una paura che viene infranta nel ritornello, da una risolutezza che esplode soprattutto in toni e parole:


Perdo sangue e attacca il panico:

finchè resisterò,

sarò più forte.
Nuova aria tra nuove carceri,
rubando il fiato ai diavoli
nei miei inferni.
Ed ogni giorno una nuova perdita
ed ogni giorno la mia rinascita,
sul filo denso della mia identità.
Ed ogni giorno una nuova ostilità
ed ogni giorno una nuova eredità,
sul filo denso della mia identità.
Non si lesina né di grinta, né di sintetizzatori; ha la velocità di un fulmine a ciel sereno. È un brano che entra in testa dal secondo ascolto in poi, laddove sulle prime può tendere a sfuggire, data l'immediatezza.
Febbricitante la fine, sembra avvolgere in una spirale.

5-Di domenica
Giunge in maniera provvidenziale, come un sediativo atto a placare le vertigini di libertà offerte dal terzo e la confusione visionaria procurataci dal quarto pezzo.
Seppur inappropriato, verrebbe quasi da considerarle consequenziali: "Lazzaro" sprigiona la forza di un sabato mattina; "Attacca il panico" libera i demoni di un vulnerabile sabato sera; "Di domenica" rallenta il ritmo: frena il precario vorticare e costringe ad un riposo dolce; ad una quiete che presta ascolto alle voci interne, ai sentimenti.
Sarà il testo, pulito e semplice, sarà lo stesso video musicale che suggerisce quell'immagine lì, ma io di fatto torno ai miei sedici anni. Dalla morsa nostalgica per chi ha già vissuto quel periodo e dall'invito implicito a viverlo in modo completo per chi ci si trova dentro, porta subito l'idea di un amore più ingenuo. Un amore non condizionato dalla maturità degli adulti, che spesso rosicchia anche i propositi più genuini. L'attrazione è vista in modo più spontaneo, leggero e naturale, come fosse un respiro già nell'aria invece di qualcosa di complesso. Il sentimento qui è libero dal senso attanagliante di gravità: quello tipico della band quando affronta questo tipo di tematiche.
Secondo singolo in ordine di uscita, è anche il brano che attira più critiche da parte dei fans, abituati a tutt'altro tipo di canzone. Io l'ho gradita proprio per la diversità; sono stufa di leggere che un gruppo si è venduto, ogni volta che sputa fuori qualcosa che va fuori dal suo tipico target. Poi il tempo passa e chi ha urlato "al venduto", si rimangia tutto per poi rivenderselo ad album successivo.
Meglio creare arte con lo stampino?
Basta semplicemente accettare che "Di domenica" ha tutt'altra natura: non lacerante e sfaldante, ma rassicurante. 

Guarda il video


Anche se domani sarò un rimorso,

forse puoi abbandonarti di domenica.


Sono cambiamenti solo se spaventano, 
sono sentimenti.
Tutti i giuramenti oggi che è domenica, 
sono adolescenti.



Capovolgi il tuo destino; 
sarò sempre qua, sarò sempre qua.
Capovolgi il tuo cuscino, 
di domenica, di domenica.

6-I cerchi degli alberi
Volevate le tenebre? Eccole qua, in tutto il loro subdolo e pericoloso fascino. Testo e note del terzo singolo, s'insinuano nella pelle. Fanno piangere e tremare l'anima di gioia e dolore contemporaneamente. Ti senti nudo, quando ti ritrovi a sentire la traccia numero sei.
Io amo questa canzone. Non si può non amarla: è ipnosi e abbandono totale.
Torbida ballata elettronica dai toni freddi, ti catapulta subito in un futuro (prossimo?) in cui tutto va disgregandosi sotto lo sguardo impotente dei protagonisti... che nonostante la distruzione assoluta che li attanaglia senza tregua, amandosi in un modo tormentato, completo, riescono a restare interi. 
Qui siamo nelle sabbie mobili. Non riuscendo a sfuggire in alcun modo da questo brano, ho deciso che l'intero album valeva la pena di essere recensito. Rendetevi conto di quanto può essere di vitale importanza ascoltarlo e imprimerlo in testa.
Pur essendo una canzone molto diversa, a me ha dato gli stessi pungenti brividi di "Incantevole"... e non dite che non ve la ricordate, che non ci credo!
Premettendo che io resto sempre legata in maniera morbosa alle ballate elettroniche, questa è un capolavoro da cui non ci si salva. Impietosa è la musica, addolcita in alcuni passaggi, su cui scorrono invocazioni di rassicurazione. Le note che s'impongono spaventose, si scontrano violentemente con un testo capace di creare e placare nel contempo qualsiasiasi inquietudine. Viene iniettato dolore in vena, ma qualcosa di più grande (più grande dei satelliti che cadono e degli oceani che si alzano in tutta la loro rabbia, badate bene) è capace di estirparlo prontamente. 
Il risultato finale dell'insolita combinazione, è che ogni certezza crolla in modo incessante; eppure ci si sente pienamente al sicuro. I Subsonica hanno creato l'infinito in mezzo alla precarietà.
Non c'è molto da fare: "I cerchi degli alberi" è una freccia scagliata a tradimento nel cuore.

Guarda il video

C'è la pace che vorrei,
chiusa in fondo agli occhi tuoi:
due fondali che non hanno età.
Cieli estivi limpidi,
si alzano gli oceani;
tutto gira in fretta intorno a noi.
Che respiriamo liberi
aria e lacrimogeni,
stretti contro il tempo che verrà.
Siamo nuove origini
tra le vecchie ingenuità;
dimmi che non moriremo mai.
7-Specchio
Capricciosa e sorprendente è l'apertura di questa "chiassosa" (ovviamente in tono affettuoso) traccia, che rimbalza dispettosa tra percussioni ed effetti. Così bizzarra e spiazzante, che è inevitabile chiedersi piuttosto presto dove voglia andare a parare. Prende via via sostanza, con l'introduzione di un testo meno sbarazzino e spensierato di come ci si aspetterebbe.


Specchio sii più gentile oggi se ce la fai;
ho l'anima fuori servizio, 

è un vizio, di forma, di sostanza 

e non passa mai. 
Sai che lo so. 
Specchio due dita in gola e mi riconoscerai;
potrei far meglio ma lo 
sai, qui tutto si è ristretto: 
la gioia, il tempo, lo spazio, il sentimento. 
Sai, non è tutto perfetto: 

si tira dritto, sfiorando il precipizio.
Scorre in maniera efficace, sfacciata e diretta un messaggio di disagio, inadeguatezza; anche un certo senso di vuoto incolmabile. Tuttavia non vedo un tracollo definitivo e sfaldante, quanto piuttosto una sopravvivenza rassegnata. Come se si volesse comunicare che la vita va avanti anche se non è proprio quella giusta; anche se sta stretta. La sensazione finale è quella di un brano divertentemente esasperato. C'è del sarcasmo; un'insolita vena tragicomica. Mi viene in mente il solito "va tutto bene", che la gente risponde anche quando è insoddisfatta.


8-Ritmo Abarth
In due parole: ansiogena e inquietante. Così forte che ti si schianta direttamente addosso. Veloce appunto come un'auto in corsa, ma è talmente tanta la voglia di comunicare in maniera immediata, che il messaggio vero e proprio è quasi sfuggente: devi ascoltarla più volte per assimilarne il senso. 
Qui mi sono trovata molto in difficoltà, non lo nego. Tanto che sono andata a cercare spiegazioni, letto interviste di cui vi riporto una domanda diretta a Samuel e la risposta:

La seconda invece riguarda il pezzo Ritmo Abarth. Chi di voi ne ha mai posseduta una?
Nessuno, ma l’idea ci è venuta osservando proprio quel tipo di macchina posteggiato davanti allo studio torinese di Max. Alla fine, abbiamo deciso di scriverci una canzone, l’abbiamo fatto e il risultato è stato molto soddisfacente. A tal punto che, esaltati dalla Ritmo Abarth, abbiamo deciso di comperarne una in società. Purtroppo non l’abbiamo trovata e abbiamo optato per una Ritmo Cabrio, di cui siamo molto orgogliosi. Millecinquecento euro ben spesi, bisogna ammetterlo. 
( CLICCA QUI per l'intervista)
Alla fine, sono giunta alla conclusione che agirò come una mia vecchia insegnante diceva sempre, dopo che una sua spiegazione prolissa era seguita da un modo d'agire errato e mille dubbi: <<Fa' per quello che hai capito.>>
Ok, io suppongo che ci sia di più della pubblicità a un'automobile: non strappatemi la giugulare per la tesi che sosterrò.

Oggi ti passo a prendere

Ti passo a prendere.

Perché non posso attendere

Non so più attendere.

Sono uscito dalla catena ricostruzioni
Fuori dall’ennesima pena per incontrarti.
Dammi una sola occasione
Il motore è pronto ad urlare
Ho un Ritmo Abarth nel cuore

Un orgasmo di cromature. 
Giuro che non riproverò 
Ma ci riproverò.

Voglio portarti al limite
Sorpasso il limite.
Premettendo che in genere non faccio i salti di gioia per le metafore automobilistiche, sembra proprio che tutto alluda a un periodo di risoluzione definitiva dei dilemmi amorosi. Come se il protagonista fosse stato a lungo indeciso/ferito e volesse recuperare con tutta l'irruenza e impazienza di cui è capace. Ho la netta immagine di un cuore che si riattiva più forte che mai dopo un forzato letargo e che non ha più intenzione di rallentare nella sua azione, per nessun motivo. Infatti il ritmo è abrasivo: l'andamento più aggressivo, che dolce. Non è una placida richiesta; l'impressione è più di una netta insistenza.

9-Licantropia
Ha il sapore d'interferenza. Ritmo lento e cadenzato, come un ansimare. Uno strascico di emozioni.
Anche qui, soprattutto qui, non fatevi prendere dalla fretta di passare alla prossima... e leggete il testo, che è uno strapiombo. Cadeteci dentro; fatevi trapassare dalle parole, una ad una. Assaporatele in testa, sussurratele. 
Poi, se ce la fate a staccarvi, andate avanti. 
Ci sono pochi termini per definirla: è sorprendentemente affascinante, se ci si lascia travolgere da essa.
Il tramonto sul discount

ha il suo picco di poesia; 
lo fotografo per te, 
che non sei mai stata mia.
Ora sei nostalgia 
e appanni le finestre col respiro.



E c'è una luna elettrica, 
c'è la mia licantropia.
Desideri e voluttà
su questa periferia. 



Ora sei nostalgia, 
appanni le finestre col respiro.
Ora sei nostalgia, 
azzanni queste stanze coi ricordi.
10-Il terzo Paradiso
Voce fuori campo e un battito di cuore fanno da filo conduttore in un brano inizialmente scarno dal punto di vista strumentale, che va arricchendosi man mano secondo meccaniche ben precise. Il colpo di genio sta proprio nella trovata di seguire scrupolosamente il concetto di base: il primo Paradiso è naturale; il secondo artificiale; il terzo una combinazione di entrambi e sarà l'ultima possibilità. L'andamento della musica pertanto si riempie secondo queste combinazioni: infatti all'ultimo si rivela più complessa: un precario, pericoloso eppure accattivante equilibrio di violini, sintetizzatori, flauti. Equilibrio che incarna da sempre l'ideale della band di fondere l'elemento elettronico con ciò che è "naturale". 
La vita artificiale che si fa vita a tutti gli effetti, senza mezzi termini.
Eppure non ho impressioni così positive. Mi striscia addosso un certo senso di disagio, incertezza. È un brano audace, che s'impone in tutto il gelo e mistero che può comunicare all'ascoltatore. Genera curiosità, ma anche sconforto. Ne conseguono comunque emozioni molto nette e limpide.



Con il morso della mela 

uscivamo dalla natura
e creavamo il paradiso artificiale:
il secondo paradiso,
che ormai divora la mela. 
Adesso entriamo nel terzo paradiso, integrando pienamente
la vita artificiale nella vita naturale.
È l'opera planetaria di cui noi tutti siamo gli autori.



È il Terzo Paradiso: 
la nuda proprietà. 
Di questa nostra casa, 
con l’acqua che è già alla gola.



È il tempo che chiama. 
È l’ultimo tra i sogni. 
È un colpo di tosse 
della Storia, della Storia.



È il Terzo Paradiso 
E siamo io e te 
Le piante velenose 
Ma anche gli alberi. 



Al centro dell'infinito 
Si forma il terzo cerchio 
Che rappresenta il ventre procreativo 
Della nuova umanità.



Come sorriderai 
Che aria respirerai 
Come ti vestirai 
Quale lingua parlerai.



Come saluterai 
Come lavorerai 
In che cosa crederai 
Quali sogni sognerai.

E qui mi fermo ad elogiare un album che merita senz'altro tutti i complimenti ricevuti. Non solo ha largamente dimostrato che il genere elettronico può convivere tranquillamente con gli altri arricchendoli (il che, con i Subsonica era scontato), ma, aspetto più importante, mi ha impresso dentro segni indelebili.
I graffi andati più a fondo, sono senz'altro provenienti da "I cerchi degli alberi", che mi ossessiona da giorni e per cui mi sono gettata in questa recensione, insieme a "Licantropia", che a modo suo mi ha avvelenata.
Trascinanti la vivacità di "Lazzaro" e la cupa ironia di "Specchio". Di notevole fascino anche "Una nave in una foresta" e "Tra le labbra": nonostante risultino più fedeli allo standard della band, non sono assolutamente da perdere.
Dopo questa, non vi resta che premere il tasto "play" e lanciarvi all'ascolto di un album con i fiocchi. 

lunedì 19 gennaio 2015

Ana e dintorni.



In un certo senso mi piange il cuore. Credevo che il mio post di maggior successo riguardasse la signorina Cyrus che lecca martelli e non solo, ma mi scontro ogni qualvolta con un'amara verità: l'argomento di punta, è la mia riflessione piuttosto fortuita sull'anoressia. 
Non che preferissi l'altro (entrambi sottolineano ciò che della società preferiremmo non vedere), ma almeno ci si faceva due risate sulla stupidità umana e non si rendeva così palese il dolore.
C'è chi cerca rimedi, chi cerca proprio il blog per iniziare, chi intende imparare a vomitare bene e via discorrendo.
C'è qualcuno di voi, che cerca una salvezza?
Mi brucia scoprirmi in genere: sono una persona che lascia grattar via di sé a malapena la superficie e a volte agli altri non resta nemmeno quella, però voglio spendere due parole. Credo sia il caso.
È difficile accettarsi, volersi bene in un modo... anche il più remoto che sia. È brutto realizzare che non si possiederanno mai tutte le cose che si desiderano, o che la vita è un tripudio d'imperfezione. Il caos più totale. Però il caos, a volte, può essere una grande salvezza. 
Raggiungere un certo peso, era importante per scrollarmi via un passato fatto di persone che non mi hanno voluta. Mi premeva solo dare un taglio a quella spirale d'odio che ci si alimenta da soli.
Siamo noi, che non facciamo il minimo sforzo per imporci agli altri per come siamo; noi che ci lasciamo emarginare: così passa il messaggio che è giusto percheggiarci da una parte, solo perché non corrispondiamo a uno standard, deciso da un pirla qualunque svegliatosi una mattina di cattivo umore. 
Non è il mondo intero che ci odia; ognuno può e sa essere il peggior nemico di se stesso. Guai a darsi anche solo una possibilità come essere umano. 
Devo ringraziare di non esserci mai cascata. Ho avuto sempre dei limiti; una sorta di principi che m'impedissero l'autodistruzione. Al massimo sfruttavo l'occasione di saltare una cena ogni tanto tra una scusa e l'altra, ridurre le dosi di cibo. Lavori dagli orari un po' sballati contribuivano a rendere fattibile l'impresa. Perdere peso aveva una buona importanza, ma non ho mai perso di vista quello che conta davvero. Ciò che tiene davvero a galla un individuo.
Nonostante fossi giunta in quel periodo a quello che posso ritenere un peso forma che non riavrò mai più, confesso che non ero felice lo stesso. Una volta che ci si attacca alla bilancia, non si risolve nulla. Non si ha né il controllo sul mondo, né una buona riuscita in qualsiasi altro ambito. Né tantomeno se ne esce con la seria convinzione di essere vincenti. Anzi, ci si è sforzati in maniera disumana e nemmeno funziona: cosa si deve fare in questa vita, per sentire la felicità o perlomeno un barlume di perdono per la propria persona?
Confesso, che nonostante non rivedrò mai più l'aghetto della bilancia fissare certe cifre, sono lieta di avere accanto persone con cui non mi pesa essere quello che sono; per cui rinuncio felicemente a quel kg in meno, pur di fare una cena in compagnia.
Passare l'intera vita a colpevolizzarsi per i risultati non ottenuti, farà in modo che non vedremo mai i tesori che il caso ci ha portato. Le cose più belle sono sempre quelle che non possiamo imbrigliare, che fuggono ribelli al nostro controllo. 
Le sorprese migliori arrivano quando ci lasciamo trascinare dalla corrente, invece di remarle sempre contro; quando assecondiamo il corso pazzo della vita, invece di rigettarlo. 
Siamo tutti convinti di volere un corpo perfetto, quando poi arranchiamo per un briciolo di comprensione; per qualcuno che insista almeno un attimo, quando ci chiedono come stiamo e rispondiamo "bene", per finta.
Io riesco a dimenticare le mie insoddisfazioni, quando realizzo che qualcuno mi capisce e non serve che mi nasconda più. Anche perché, se qualcuno riesce a ricucirti le ferite, è sempre un'alternativa migliore allo scomparire.