Translate

lunedì 22 luglio 2013

Scarnificare



L'acquerello giaceva sbafato per terra, da ore, ferito da un segno nero da attacco di rabbia improvviso. Un raptus da ripudio dell'arte, o di sé stessa. Amy quel foglio l'aveva tradito, umiliato, abbandonato alla deriva, completamente immersa nel suo gin che la faceva naufragare verso mari lontani. Le faceva varcare orizzonti più prossimi di quella stupida vela su un foglio, barca sfriciacchiata su carta che non approdava mai in nessun porto.
Si era portata via quanti più ricordi, quanto più poteva del suo stupido paesino di provenienza. L'aveva stipato tutto in quella stupida stanza, pur di non sentirne la nostalgia. E non era bastato: quella vecchia strega martellava in ogni istante, su ogni fragile parete della sua anima. Nulla la consolava più; le foto, i peluches, i regali non riempivano mai la distanza, non placavano mai la fame di amore, di baci, di carezze, sicurezza. Nulla bastava più a motivarla, nemmeno i suoi sogni. Forse non voleva più essere un grafico, non voleva più essere una col progetto di vita speciale, studiare anni e anni per incontrare un gigantesco boh. Il futuro.
Lei voleva vivere adesso. Adesso non significa "un giorno scalerò il mondo e per adesso ingoio merda"; adesso significa sentire i brividi di felicità, quella sensazione di appartenenza di quando guardi un lago da un pontile e la brezza ti punge leggera. Adesso è sentirsi a casa, non sgomitare tra sconosciuti per accaparrarti un angolo in cui piangere.
Bevve ancora, a sorsi grandi per annacquare la testa. Per diluire il dolore che come pus non smetteva più di gonfiare, infettare le ferite. Cominciò tutto a girare troppo e si sdraiò sul letto. I suoi bisogni affettivi non facevano che crescere. Si sentiva sola, lontana dall'esistenza, lasciata col cuore aperto, sventrato. Squarciata e lasciata in un angolo a morire.
Le sembrava tutto così drammatico... e vero. Non è un film; è l'esistenza che ti succhia via le energie. Lui non era più certo di amarla e chissà con quante l'aveva già rimpiazzata con la scusa del dubbio, col ricatto del "non dovevi andare". Eppure non voleva tornare da lui; pregava ogni giorno che quel legaccio si allentasse col tempo, fino a spezzarsi per sempre. Fino a smettere di fare così male.
Si mise a sedere e ingollò altro alcool, la gola desensibilizzata dai precedenti sorsi non bruciava già più. Stringeva tra le mani tremanti la bottiglia per non farla cadere, quasi fosse un tesoro. Quasi fosse l'unica cosa rimasta. Voleva annegare in un limbo in cui non esisteva più niente, in cui le cose non dovevano necessariamente avere un senso. Un universo in cui si poteva sorridere senza che quel sentimento genuino venisse guastato da qualcosa di marcio, in cui amicizie e amori non venivano abortiti dal tradimento. Nell'alcool ci poteva credere davvero: almeno le offriva qualcosa di reale, non come le promesse della gente, non come i sorrisi falsi, i finti "ti voglio bene", i "ti amo". Non come il futuro.
Diede un calcio al bicchiere sporco di nero e scoppiò a piangere a singhiozzi fragili, scheggiati, che si potevano appena percepire da fuori, ma dentro erano un piombino nell'anima. Una cartuccera sparata intera nel cuore.
Sentì il gin arrivare, salire, rovesciarle lo stomaco, provocare quel senso di vomito e nausea, misto all'euforia; la vista a scomparsa, il mondo che si frantumava in miglioni di flash. Infinite stelline che allungando le mani le poteva cogliere davvero. In quell'attimo di distruttiva decadenza, di abbandono feroce, si sentiva sempre così indifesa, ma in pace.
Se non sei vigile, se niente ti può raggiungere fin dove ti sei nascosta e non può venire a stanarti, non può nemmeno far male. Il lupo non può mangiarti se non ti trova in casa.
Con ancora quel barlume di lucidità rimastole per concepire tale pensiero, capì che non ne aveva abbastanza: non si era ancora fatta abbastanza del male, perché ancora poteva capire, sentire le schegge alzarle la pelle.
Ancora non era riuscita a sfuggirgli: le immagini delle amiche, di casa, dell'amore, dei baci, continuavano a raggiungera, afferrarla, ghermirla.
Non guardare indietro.
Bevve con più foga fino al soffocamento, fino all'attimo in cui ti alzi e le gambe non ti reggono più e cadi. Si, le piaceva nonostante tutto, cadere ancora. Perché cadere, morire da anestetizzata faceva meno male. Vivere da ubriaca, era come gettarsi cadendo sempre su un materasso, oppure saltare da un grattacielo fino a toccare l'asfalto, ma da già morta.
Feriva meno l'abbandono se non aveva più gli occhi per vederlo, le orecchie per sentirlo, le dita per toccarlo. Non poteva nemmeno più piangere, se non poteva accorgersi che il mondo si era dimenticato di lei.





David era tornato.
Che poi di solito si torna nel luogo in cui si vive; ma lui non viveva, nè dormiva lì.
David non avrebbe nemmeno lontanamente dovuto trovarsi in uno dei dormitori singoli delle ragazze. Eppure, ogni sera trovava il modo di entrare e la forza di vederla così. L'aveva lasciata che dipingeva, ma l'aveva fatto di nuovo: si era infuriata e quel fuoco aveva bruciato ancora il suo innato talento. Poi, quelle mani leggere d'aria s'erano attaccate alla bottiglia e si erano staccate solo approdando in un altro universo. Si fermava solo quando si sentiva abbastanza abbattuta, annebbiata da quel perverso meccanismo che la ingoiava per intera, senza nemmeno sputar fuori uno straccio d'anima intatta.
Trovarla ogni sera spalmata sul tappeto era una fitta lancinante alla milza, di quelle che ti prendono quando corri troppo e se ti fermi per farle passare non cambia un cazzo lo stesso. Quelle che quando le senti arrivare puoi fare quello che ti pare, tanto ormai sei andato. A volte si sentiva quasi tentato di attaccarsi a qualche altra bottiglia e fare lo stesso, sperando di poterla raggiungere.
E poi? A lei chi avrebbe pensato? Laddove nessuno c'era, perlomeno lui doveva esserci. Lui era quella stessa fitta alla milza, quel qualcosa che viene e si attacca, ma tendenzialmente non serve a niente.
La sollevò da quel degrado che ben poco aveva a che fare con lei.
Nuovi segni sui polsi: provava tutte le volte a volare via, ma fortunatamente non aveva il coraggio di farsi più di quei graffi a carne viva. Non tagliava mai davvero e lui pregava che non si sarebbe decisa mai.
-Dai, forza e coraggio, andiamo a vomitare.
-Ma io ne voglio ancora!
Allungò la mano dove era solita tenere il gin: il suo preferito.
-No no no. Adesso fai la brava e vomiti.
Reggendola come si fa con i bambini, la condusse passo strascicato dopo l'altro al wc. Le mise due dita in gola e lei cacciò via tutto il veleno che si era portata dietro e le strozzava l'anima. Amy lo osservò per un istante solo, con lo sguardo assente di chi non vuole esistere e una scarica lo attraversò brutale. Esitò e perse l'equilibrio peggio di lei, che senza sostegno vomitò fuori dal water e scoppiò a ridere, poi si spense di nuovo. A David scoppiavano le tempie e frammenti di sé si spezzavano, incrinati dal peso del dolore.
Ogni dannatissima sera si chiedeva se ce l'avrebbe fatta il giorno seguente; ma quando riusciva a farla adagiare sul letto, e tentava i rimedi più assurdi per far si che la stanza smettesse di girare per farla dormire, si sentiva sereno. E poi aspettava un'altra ora. Perché poco prima di sprofondare nel sonno, quello da botta in testa che ti porta via, lo diceva sempre. Non mancava mai di dirlo.
-Michael, ti amo. Sono contenta che sei tornato.
E lui avvampava lo stesso. Consapevole che non sarebbe mai stato quel Michael lì che viveva all'altro capo del mondo, che le stava rubando la vita. Avvampava, perché lei poteva fuggire nell'alcool; lui solo in quella fantasia. Tremava, perché se solo fosse stato Michael, l'avrebbe salvata. L'avrebbe convinta a non tagliarsi più, le avrebbe portato via le bottiglie e ricattata con quei ricatti che possono permettersi solo gli uomini che sanno rubare il cuore di una donna e manovrarla come vogliono. Le avrebbe impedito di farsi del male o se ne sarebbe andato.
Ma lui non era Michael: era David. Era solo l'amico del corso di Disegno. Quello che se andava via non importava a nessuno.
E David, come ogni maledetta volta, sarebbe uscito strisciando da quella stanza verso le tre di mattina, si sarebbe svegliato alle sette in punto e a lezione avrebbe dovuto far finta di niente: scherzare con lei, fingere di non capire che stava male -passando anche da insensibile-, inventarsi un sacco di balle sul perché era sempre stanco -tipo: ho passato ore al computer a giocare- e mostrarsi felice della propria vita.
David era costretto a farle credere che ogni notte affrontava i mostri da sola, anche se non era vero. Anche se il dolore di lei sapeva sempre penetrarlo, tanto che alla fine si convinceva anche lui che doveva esserci Michael. Cercava d'ignorare i segni del vuoto, quelli che lei si portava sui polsi e non sapeva celare, si sforzava di non farglielo notare per non farla arrabbiare.
E tutto questo, per sentire un ti amo detto a qualcun altro.
Questo perché, se non ti chiami Michael, ti accontenti anche di morire, pur di vivere un po'. Perché il dolore, se non puoi curarlo ferendo qualcun altro, né correggerlo con l'alcool, l'unica cosa che ti resta è sopportarlo e lasciarti scarnificare.

Nessun commento:

Posta un commento